Cronaca

Brusca scarcerato, la mamma del bambino sciolto nell’acido: “Rispetto sentenza, ma non potrò mai perdonarlo”

Giovanni Brusca libero, il dolore della madre del bambino sciolto nell'acido: "Rispetto sentenza, ma non potrò mai perdonarlo"

Dopo la scarcerazione di Giovanni Brusca parla Franca Castellese, la madre del bambino sciolto nell’acido dopo il rapimento del 23 novembre 1993, quando di persero le tracce del piccolo Giuseppe Di Matteo.

Giovanni Brusca libero, parla la madre del bambino sciolto nell’acido

“Rispettiamo le leggi e le sentenze dello Stato. Ma Giovanni Brusca non potrò mai perdonarlo. Mi ha ucciso il figlio che conosceva bene e con cui ha giocato a casa. Nel mio cuore come posso perdonarlo?” sono le parole di Franca Castellese come riportato da Il Mattino.

Brusca, cosa ha detto il padre del bambino sciolto nell’acido

Il piccolo Giuseppe, figlio di Santino Di Matteo, venne sciolto nell’acido all’età di 13 anni. La sua unica colpa fu quella di avere avuto un padre che dopo aver fatto parte per tanti anni di Cosa Nostra si fosse finalmente pentito e soprattutto fosse disposto a parlare.

Il bambino venne ucciso su ordine di Riina dai fratelli Brusca, Enzo ma soprattutto Giovanni che ieri ha lasciato il penitenziario di Rebibbia. Giovanni Brusca è, inoltre, colui che ha azionato il telecomando nella strage di Capaci nella quale morì il giudice Falcone, la moglie e gli agenti della scorta. “Dopo trent’anni mi fanno ancora testimoniare ai processi. Io vado per dire quello che so. Ma a che cosa serve se poi lo stesso Stato si lascia fregare da un imbroglione, da un depistatore?”.

Chi è Giovanni Brusca: crimini, reati e vittime del porco

Figlio del boss Bernardo Brusca (1929-2000) e fratello di Emanuele ed Enzo Salvatore, tutti “uomini d’onore” della Famiglia di San Giuseppe Jato, entrò nella cosca del padre nel 1976 all’età di 19 anni, dopo aver commesso un omicidio per i Corleonesi capeggiati da Salvatore Riina ed infatti il suo “padrino” nella cerimonia d’iniziazione (la cosiddetta “punciuta“) fu proprio Riina.

Brusca faceva parte di un gruppo di fuoco formato da killer spietati che agivano sotto le direttive di Totò Riina, di cui facevano parte anche Antonino Madonia, Giuseppe Giacomo Gambino, Pino Greco detto Scarpuzzedda, Mario Prestifilippo, Filippo Marchese, Giuseppe Lucchese, Giovanbattista Pullarà, Vincenzo Puccio e Calogero Ganci: in tale veste infatti nel 1977 partecipò all’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo e nel 1983 si occupò di preparare, insieme ad Antonino Madonia, l’autobomba utilizzata per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli agenti di scorta.

Il capitano dei carabinieri Mario D’Aleo, comandante della Compagnia di Monreale, intuì lo spessore criminale di Giovanni Brusca ed infatti lo arrestò per il danneggiamento di un automezzo nonché sottopose a pressanti indagini il padre Bernardo: la vendetta dei Brusca arrivò il 13 giugno 1983, quando il capitano D’Aleo venne ucciso in un agguato insieme ai colleghi Giuseppe Bommarito e Pietro Morici.

Nel 1984 Brusca venne colpito da un mandato di cattura per associazione mafiosa a seguito delle dichiarazioni di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno e venne inviato al soggiorno obbligato a Linosa; a seguito dell’arresto del padre Bernardo avvenuto l’anno successivo, il reggente del mandamento di San Giuseppe Jato divenne Baldassare Di Maggio. Nel 1991 Giovanni Brusca si diede alla latitanza, riprendendo le redini della Famiglia di San Giuseppe Jato e mettendo da parte Di Maggio, che fuggì per timore di essere ucciso prima all’estero e poi in Piemonte, dove venne arrestato e iniziò a collaborare con la giustizia, facendo arrestare Salvatore Riina.


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Il bambino sciolto nell’acido e l’arresto di Giovanni Brusca

Ai primi di gennaio 1996, seguendo le indicazioni del collaboratore di giustizia Tony Calvaruso (ex braccio destro di Leoluca Bagarella), gli inquirenti arrivarono ad una villa a Borgo Molara, dove Brusca si nascondeva insieme alla compagna Rosaria Cristiano e al figlioletto Davide di 5 anni, che però riuscirono a fuggire prima dell’irruzione delle forze dell’ordine. Nel febbraio successivo, due fedelissimi di Brusca, Giuseppe Monticciolo Vincenzo Chiodo, vennero arrestati e decisero subito di collaborare con la giustizia: fecero infatti scoprire il casolare-bunker in contrada GiambascioSan Giuseppe Jato, dove un mese prima era stato ucciso e sciolto nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo e lì venne trovato un vero e proprio arsenale a disposizione di Brusca (dieci missili, un lanciamissili, 10 bazooka, 50 kalashnikov, 400 kg di esplosivo, 10 bombe anticarro, un lanciagranate, 7 fucili mitragliatori, 35 pistole, giubbotti antiproiettili ed ordigni esplosivi già confezionati).

Monticciolo e Chiodo diedero indicazioni utili sui possibili nascondigli di Brusca, cui seguì il ritrovamento di un’agenda con codici e numeri di telefono trovata addosso al latitante Salvatore Cucuzza, reggente del mandamento di Porta Nuova: dopo vari pedinamenti e intercettazioni basati su tali informazioni, Brusca fu infine arrestato il 20 maggio 1996 in via Papillon numero 34, contrada Cannatello / Fiumenaro (lussuosissima frazione balneare di Agrigento), dove un fiancheggiatore gli aveva messo a disposizione un villino, in cui abitava anche il fratello Enzo Salvatore insieme alla moglie. L’operazione venne coordinata dal questore di Palermo Arnaldo La Barbera e condotta dagli uomini della Squadra Mobile palermitana guidati dal commissario Luigi Savina.

Nell’operazione parteciparono più di 400 uomini e 40 mezzi speciali della polizia,i furgoni principali erano stati nascosti uno a 200 metri dalla traversa e un altro ad 1 km e mezzo . Per identificare esattamente il covo in cui si trovava Brusca, in quanto nella via vi erano diverse villette una accanto all’altra, si adottò lo stratagemma di utilizzare una motocicletta smarmitatta guidata da un poliziotto in borghese il quale dava delle forti accelerate al motore portandosi di fronte ai cancelli delle ultime tre ville in modo che il rombo del motore fosse percepibile dall’audio di “fondo” nell’intercettazione telefonica sull’utenza di Brusca: (avevano il suo ho telefonico e una sola possibilità) via radio “guidarono” il collega in moto in quel segmento di via, e ascoltando il massimo percepibile del rumore del motore, capirono che quello era il punto esatto, cioè quando il rumore che aumentava sempre piu tocco l’apice, la moto era davanti il cancello, per poi iniziare a diminuire man mano che la moto si allontanava, diedero il via al blitz con la frase d’ordine, “ddrocu è“.

A irrompere dalla porta furono contemporaneamente 80 uomini e altri 80 dalla finestra che dava nella stanza dove stavano mangiando e da dove Brusca di solito osservava fuori. Alcuni abitanti locali della via raccontano che gli agenti, non riuscendo a capire perfettamente qual era l’esatta ubicazione della casa di Brusca, irruppero contemporaneamente nelle due villette a destra e a sinistra (oltre che a quella centrale dove poi fu scovato), onde evitare appunto uno sbaglio che avrebbe compromesso l’operazione e potenzialmente favorito la fuga. La villetta era sorvegliata da mesi da un secondo piano di una villetta in una via parallela. Era spesso avvistato dai residenti e una volta si uní anche ad una partita di calcio organizzata dai ragazzi della via in un terreno vuoto li vicino, dove si infortuno. Ironia della sorte, al momento dell’arresto, i fratelli Brusca stavano guardando il film Giovanni Falcone di Giuseppe Ferrara trasmesso da Canale 5 e vennero ammanettati dall’ispettore Luciano Traina, fratello di Claudio, uno degli agenti di scorta uccisi nella strage di via d’Amelio

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