Diritto

“È indagato, chissà cosa avrà fatto” e altri miti da sfatare

Parola alla Difesa: la rubrica dell'avvocato Fabio Coppola

La scorsa settimana ci siamo salutati con l’auspicio di un rinnovato impegno verso l’educazione civica sui temi della Giustizia.

Per convincersi dell’importanza della sfida culturale lanciata, si pensi a quanto conti nella dialettica elettorale l’eventuale esposizione mediatica di una indagine riguardante uno dei candidati: l’arma giudiziaria, se non correttamente compresa dall’elettorato, potrebbe infatti essere strumentalizzata per colpire (e affondare) la reputazione dell’avversario politico e condizionare l’esito delle elezioni. Un rischio che un Paese civile e democratico non può francamente correre a cuor leggero.

Provo allora, grazie a questo spazio, a scardinare una radicata e distorta convinzione, quella cioè che una persona indagata abbia necessariamente “fatto qualcosa di sbagliato.

Sarà capitato a tutti i lettori di ascoltare o maturare riflessioni del tipo “se non avesse fatto niente di male non sarebbe stato indagato” oppure “se è indagato un motivo ci sarà”.

Mi pare altresì che la tendenza verso giudizi affrettati e perentori maturi maggiormente in coloro che hanno poca confidenza con le dinamiche giudiziarie (i c.d. non addetti ai lavori) e in particolare in chi, per indole, posizione o ruolo è più riparato dal rischio-penale che accompagna molte delle attività quotidiane, specie quelle svolte ‘in prima linea’.

Affermazioni del genere soffrono dunque di ingenuità, ma sono anche tecnicamente errate se confrontante con ciò che avviene nella prassi giudiziaria o con l’impalcatura del procedimento penale.

Provo allora a riannodare i nastri: cosa vuol dire essere indagati?

Tale status si acquisisce con la iscrizione del nominativo della persona indiziata di un fatto costituente reato nel relativo registro. Si tratta di un atto dovuto, in quanto conferisce all’indagato una serie di garanzie e diritti e che non presuppone una valutazione qualitativa in merito ai fatti, ma permette di svolgere, da quel momento in poi, i doverosi accertamenti investigativi atti a verificare se il reato è stato commesso e da chi.

Dopo i necessari approfondimenti investigativi, il Pubblico Ministero potrà decidere se archiviare la notizia di reato oppure se rinviare a giudizio quella persona al fine di provarne, dinanzi a un giudice terzo e imparziale, la responsabilità penale.

Fino al momento del rinvio a giudizio, dunque, l’iscrizione del nominativo di una persona tra gli indagati rappresenta un dato tecnico e neutro, che nulla aggiunge in merito alla veridicità dei fatti sui quali si indaga. Anzi, talvolta l’iscrizione nel registro degli indagati risulta un atto utile all’indagato a dimostrare la propria innocenza.

Pensate alla denuncia dei familiari in seguito al decesso di un proprio caro per presunta malpractice medica e alla consequenziale apertura di una indagine. In questo caso, il Pubblico Ministero iscriverà tra gli indagati i medici che hanno avuto un contatto qualificato con la vittima al fine di consentire loro di partecipare, per il tramite di un consulente tecnico, alla autopsia, da intendersi quale accertamento irripetibile e funzionale a stabilire la esatta dinamica dei fatti e le correlate responsabilità.

Com’è intuibile, in una ipotesi del genere lo status di indagato permette al medico innocente di dimostrare, sin dal primo momento utile (l’accertamento autoptico) la propria estraneità ai fatti e non vuole invece stigmatizzare il suo comportamento.

Se ciò non bastasse, provo a sfatare un altro ‘mito’ sugli indagati, ossia quello che devono aver fatto “qualcosa” per meritarsi lo stigma sociale che ne consegue.

In realtà, per acquisire lo status di indagato può bastare anche una falsa denuncia ben circostanziata.

Pensate al vicino, con il quale non corrono buoni rapporti, che rappresenti falsamente alle Autorità di essere stato aggredito, minacciato o molestato dal povero malcapitato. Certo: all’esito delle indagini preliminari probabilmente una denuncia falsa svelerà la propria natura e verrà archiviata, ma nel frattempo la persona falsamente accusata verrà indagata quale possibile autore del fatto-reato che occorre verificare.
Agli occhi dell’opinione pubblica, la differenza che corre tra indagati illustri, la cui posizione è scandagliata minuziosamente da una platea indistinta, e l’ipotizzata querelle tra vicini che sfocia in una denuncia poggia esclusivamente sul diverso risalto mediatico che viene dato all’apertura di una indagine nei confronti di personaggi pubblici. La sovraesposizione mediatica della fase delle indagini ha infatti con il tempo alimentato la convinzione che ad essere indagati siano solo “gli altri”, probabilmente quelli che “hanno fatto qualcosa di grave”, inconsapevoli – al contrario di chi quotidianamente partecipa al complesso ingranaggio della giustizia – dell’esistenza di un mondo sommerso di procedimenti penali che nascono (e talvolta muoiono) nei confronti di comuni cittadini senza che ne sia dato alcun risalto mediatico.

Non è un caso, infatti, che alcune delle persone coinvolte per la prima volta in una indagine, rappresentino la propria sorpresa al difensore al quale si affidano. In fondo, loro non hanno “mica ucciso qualcuno”. Il ché è vero: essi sono innocenti fino a prova contraria, tanto quanto i più famosi indagati che finiscono quotidianamente nelle cronache giudiziarie e che, con troppa approssimazione, vengono erroneamente equiparati ai responsabili dei reati loro attribuiti.


di Fabio Coppola

Avvocato penalista, PhD e Post-Doc in Diritto Penale, Presidente di Scuola Giuridica Salernitana

Avv. Fabio Coppola

Avv. Fabio Coppola, PhD www.lawfirmcoppola.it f.coppola@lawfirmcoppola.it

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