Cronaca

Migranti, la rabbia di Papa Bergoglio: “In Libia chiusi nei lager”

Migranti, la rabbia del Papa: “In Libia chiusi nei lager“. Bergoglio ricorda il suo primo viaggio a Lampedusa e sbotta: “I campi di raccolta sono un inferno“. Un richiamo indiretto ma forte ai governi, alla politica delle singole nazioni, alle opinioni pubbliche della sponda nord del Mediterraneo.

La rabbia del Papa: “In Libia chiusi nei lager”

Durissimo intervento di oggi quello di Papa Bergoglio, che mette l’Europa di fronte alle proprie inadempienze soprattutto di fronte all’orrore dei campi di raccolta per i migranti in Libia, ha tutto il sapore di un memento e di un avvertimento.

Ad un continente che non vede l’ora di tuffarsi nelle vacanze e dimenticare che il coronavirus è tutto meno che passato, Bergoglio rammenta che il Mediterraneo è una bara, e non una piscina, e che gli uomini tendono a scrollarsi di dosso i pensieri poco piacevoli, passata la paura, ma la realtà resta la stessa.

Penso alla Libia, ai campi di detenzione, agli abusi e alle violenze di cui sono vittime i migranti, ai viaggi della speranza, ai salvataggi e ai respingimenti”, dice celebrando la messa a Santa Marta, ripetendo a monito le parole di Matteo: “Tutto quello che avete fatto l’avete fatto a me”. Insomma: uccidere, violentare, ridurre in schiavitù. Niente cadrà in prescrizione.

Come Auschwitz

Campi di concentramento e detenzione, più che di raccolta, quelli in Libia. Se per descriverli servono parole crude, magari lanciate da un altare e nel corso di una celebrazione, così sia. Il Papa li chiama “lager” nell’accezione comunemente data al termine, e non facendo riferimento al significato generico che la parola ha in tedesco, lingua che egli stesso ha praticato a lungo.

Lager: “Nessuno può immaginare l’inferno che si vive lì”. l controcanto lo dà invece “la cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza”.

Una realtà “edulcorata” quale quella che gli veniva somministrata proprio in quel viaggio a Lampedusa del 2013. Così il traduttore dall’etiope, che quella volta voleva risparmiare alle orecchie dell’illustre visitatore la pena di un racconto degno di uno scampato da Auschwitz, diviene metafora di un desiderio di sopire le indignazioni e troncare le reazioni, immergendo tutto in un catino di indifferenza.

No, dice Bergoglio, qua ci si sbaglia, perché chi fa certe cose, siano esse buone o cattive, le fa a Dio. E lasciare la gente nei lager di oggi è come averla lasciata nei lager di un tempo. Se il ricordo è questo, vuol dire che il Pontefice non custodisce nel suo cuore pareri particolarmente positivi su quanto è stato e viene tuttora fatto.

Di qui un richiamo indiretto ma forte ai governi, alla politica delle singole nazioni, alle opinioni pubbliche della sponda nord del Mediterraneo: particolarmente desiderose, in queste ore, di un mojito con cui far fuggire i pensieri. E, indirettamente, la proposta di un nuovo modello di accoglienza che renda compatibile le possibilità dei paesi di arrivo con le esigenze di un trattamento umano verso chi tenta di arrivare.

Corridoi umanitari

Dalla fine del 2015, grazie all’iniziativa della Comunità di Sant’Egidio e della Confederazione delle Chiese Evangeliche, è stata attivata in Italia l’esperienza dei corridoi umanitari. Da allora, provenienti da Paesi in guerra, sono arrivati nel nostro Paese (dato di giugno 2019) 2.148 rifugiati, di cui 792 minori, in gran parte siriani. I corridoi coinvolgono interi nuclei familiari, evitando lacerazioni affettive, e garantiscono all’arrivo casa e lavoro. Il tutto a carico delle famiglie e delle comunità che si mettono a disposizione.


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