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Chi parla di sesso sul lavoro merita il licenziamento: lo dice la Cassazione

La Cassazione si pronuncia in maniera chiara: una sentenza permette il licenziamento di un dipendente nel caso in cui parlasse di sesso sul posto di lavoro.

Dipendenti state attenti: rischiate il licenziamento se parlate di sesso in ufficio

Parlare si sesso sul posto di lavoro può essere pericolo. Talmente pericoloso da portare un dipendente a rischiare il licenziamento. A dirlo è la sentenza numero 14500/2019 della Cassazione, che conferma la pronuncia del giudice d’appello che ha riconosciuto al funzionario licenziato dalla società datrice, la sola tutela indennitaria prevista dal comma 5 dell’art 18 della legge n. 300/1970. Nel caso di specie mancando i due requisiti richiesti dal comma 4 dell’art 18 dello Statuto dei lavoratori per la reintegra sul posto di lavoro, il giudice ha correttamente applicato la sola tutela indennitaria sancita dal comma 5 del medesimo articolo di legge.

La vicenda processuale

La sentenza di primo grado aveva disposto la reintegra del dipendente, accogliendo la domanda di annullamento del licenziamento intimatogli dalla società datrice “per aver proferito, utilizzando mezzi aziendali, ossia nel corso di telefonate effettuate alla presenza di una collega, frasi di natura erotico-sessuale.”

La Corte d’Appello però accoglieva il reclamo avanzato dalla società datrice, disponendo in favore del funzionario la sola tutela indennitaria, ritenendo che per le modalità e la reiterazione della condotta del lavoratore occorre applicare l’art. 18 comma 5 della legge n. 300/1970. Ricorre in Cassazione il funzionario lamentando:

  • la mancata applicazione della sanzione conservativa, stante le mere e innocue espressioni intercorse con colleghi terzi e non con la collega presente in ufficio e il mancato utilizzo dei mezzi aziendali limitandosi all’uso del tutto promiscuo del cellulare aziendale;
  • l’insussistenza del fatto contestato per il quale il contratto collettivo non prevede alcuna sanzione espulsiva;
  • l’ultra petita della Corte, visto che il reclamo della società era limitato ad accertare la legittimità del licenziamento o la sua conversione in sanzione conservativa;
  • il mancato ascolto come teste della destinataria della prima telefonata, che avrebbe potuto dimostrare l’inattendibilità dei testi di controparte;
  • la non soccombenza con conseguente illegittima condanna al pagamento delle spese processuali, stante l’accoglimento di una sua domanda.

Un dipendente che parla di sesso davanti al collega può essere licenziato

La Cassazione con la sentenza n. 14500/2019 accoglie solo il quinto motivo del ricorso e rigetta tutti gli altri. Gli Ermellini, relativamente al caso di specie, precisa che solo se il fatto contestato e accertato è previsto da una fonte negoziale che ne sancisce la punibilità con la sanzione conservativa, il licenziamento è illegittimo. Pertanto “non può dirsi consentito al giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita …”

In questo caso specifico dalle deposizioni dei testi, non dettate da motivi di rancore pregressi nei confronti del funzionario, è emerso che lo stesso, una volta giunto presso il suo nuovo ufficio, in presenza di una collega di lavoro, con la quale non era in confidenza, utilizzando i mezzi aziendali e per ben due volte, proferiva espressioni erotiche sessuali,incurante di poter urtare la sensibilità e la sfera dei valori della stessa, come persona e come donna. Tale condotta è stata giudicata dalla Corte come non rientrante tra quelle punibili con la sanzione conservativa previste dall’art. 39 del contratto collettivo, prevista nei casi in cui il dipendente utilizzi in modo improprio i mezzi aziendali o nel caso in cui commetta gravi mancanze in grado di recare pregiudizio alla persona, alla morale, alla disciplina e all’igiene.

Deve quindi concludersi che, non sussistendo “le due condizioni previste dal comma 4 art. 18 della legge n. 300 del 1970 (ovvero mancanza degli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili) per l’applicazione della tutela reintegratoria (e in particolare, la previsione di una sanzione conservativa per la condotta adottata dallo …), la Corte distrettuale ha correttamente applicato il regime generale di tutela risarcitoria dettato dal comma 5 del medesimo articolo.”

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