Almanacco

Primo Levi, vita, opere, frasi dello scrittore sopravvissuto ai lager nazisti

Primo Levi è la guida nell’abisso più profondo mai toccato dall’uomo. Un monito che ci mette in guardia su quanto sia facile, anche per un uomo normale, per ognuno di noi, scivolare sotto la pressione dell’ambiente circostante nella pratica della violenza inutile, eseguita al solo scopo di provare piacere nell’umiliare il proprio simile

Primo Levi è considerato uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento. Il suo libro-testimonianza sulla prigionia ad AuschwitzSe questo è un uomo, apparso nel 1947, è tra i testi più tradotti al mondo. Una cruda e spietata testimonianza di un sopravvissuto ai lager nazisti nella quale per lunghi passaggi l’autore-testimone scompare, lasciando sotto i nostri occhi una cronaca di minuti, quanto tragici, eventi.

Primo Levi è la guida nell’abisso più profondo mai toccato dall’uomo. Un monito che ci mette in guardia su quanto sia facile, anche per un uomo normale, per ognuno di noi, scivolare sotto la pressione dell’ambiente circostante nella pratica della violenza inutile, eseguita al solo scopo di provare piacere nell’umiliare il proprio simile.

Giovane chimico ebreo, nel corso della giovinezza partecipa alla Resistenza. Catturato dai nazisti, viene deportato nel campo di lavoro di Monowitz, presso Auschwitz, come milioni di ebrei. Forse grazie alla sua specializzazione, riesce a sopravvivere. Ritornato in Italia, inizia a scrivere quello che è il suo romanzo più famoso: Se questo è un uomo, pubblicato nel 1947, in cui testimonia le infamie dei campi di concentramento nazisti dove ogni azione era improntata alla distruzione della dignità dei prigionieri.

Primo Levi, la biografia

Primo Levi, scrittore e testimone delle deportazioni naziste, nonchè sopravvissuto ai lager hitleriani, nasce il 31 luglio 1919 a Torino.

Di origini ebraiche, ha descritto in alcuni suoi libri le pratiche e le tradizioni tipiche del suo popolo e ha rievocato alcuni episodi che vedono al centro la sua famiglia. Nel 1921 nasce la sorella Anna Maria, cui resterà legatissimo per tutta la vita. Cagionevole di salute, fragile e sensibile, la sua infanzia è contrassegnata da una certa solitudine a cui mancano i tipici giochi condotti dai coetanei.


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Nel 1934 Primo Levi si iscrive al Ginnasio – Liceo D’Azeglio di Torino, istituto noto per aver ospitato docenti illustri e oppositori del fascismo come Augusto Monti, Franco Antonicelli, Umberto Cosmo, Zini Zini, Norberto Bobbio e molti altri. Si dimostra un eccellente studente, uno dei migliori, grazie alla sua mente lucida ed estremamente razionale. A questo si aggiunga, come poi dimostreranno i suoi libri, una fantasia fervida e una grande capacità immaginativa, tutte doti che gli permettono di brillare sia nella materie scientifiche che letterarie. In prima Liceo, fra l’altro, ha per qualche mese come professore d’italiano nientemeno che Cesare Pavese.

È comunque già evidente in Levi la predilezione per la chimica e la biologia, le materie del suo futuro professionale. Dopo il Liceo si iscrive alla Facoltà di Scienze alla locale Università (dove stringerà amicizie che dureranno tutta la vita); si laurea con lode nel 1941.

Un piccolo particolare macchia però quell’attestato, esso infatti riporta la dicitura “Primo Levi, di razza ebraica”. Levi al proposito commenta: “[…]le leggi razziali furono provvidenziali per me, ma anche per gli altri: costituirono la dimostrazione per assurdo della stupidità del fascismo. Si era ormai dimenticato il volto criminale del fascismo (quello del delitto Matteotti per intenderci); rimaneva da vederne quello sciocco“.


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Il trasferimento a Milano

Nel 1942, per ragioni di lavoro, è costretto a trasferirsi a Milano. La guerra impazza in tutta Europa ma non solo: i nazisti hanno anche occupato il suolo italico. Inevitabile la reazione della popolazione italiana. Lo stesso Levi ne è coinvolto. Nel 1943 si rifugia sulle montagne sopra Aosta, unendosi ad altri partigiani, venendo però quasi subito catturato dalla milizia fascista.


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La deportazione ad Auschwitz

Un anno dopo si ritrova internato nel campo di concentramento di Fossoli e successivamente deportato ad Auschwitz. Viene liberato il 27 gennaio 1945 in occasione dell’arrivo dei Russi al campo di Buna-Monowitz, anche se il suo rimpatrio avverrà solo nell’ottobre successivo.

Se questo è un uomo

Questa orribile esperienza è raccontata con dovizia di particolari, ma anche con un grandissimo senso di umanità e di altezza morale, nonché di piena dignità, nel romanzo-testimonianza, “Se questo è un uomo“, pubblicato nel 1947, imperituro documento delle violenze naziste, scritto da un uomo di limpida e cristallina personalità.

In un’intervista concessa poco dopo la pubblicazione (e spesso integrata al romanzo), Primo Levi afferma di essere disposto a perdonare i suoi aguzzini e di non provare rancore nei confronti dei nazisti. Ciò che gli importa, dice, è solo rendere una testimonianza diretta, allo scopo di fornire un contributo personale affinché si eviti il ripetersi di tali e tanti orrori.


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La trama

Il libro narra la storia dell’autore, ebreo e partigiano, che viene catturato dai fascisti il 13 dicembre 1943 e portato nel campo di internamento di Fossoli (Modena), dove gli viene annunciato che sarà deportato con gli altri ebrei verso una destinazione ignota. Partono su un treno e affrontano uno scomodo viaggio di 15 giorni. Arrivati alla stazione di destinazione i deportati vengono divisi in due gruppi: quelli validi per lavorare e quelli non validi per lavorare. Si lascia intendere che questi ultimi verranno subito uccisi. Gli altri vengono portati nel campo di concentramento di Auschwitz, dove leggono sopra al cancello d’entrata le parole: Arbeit macht frei (Il lavoro rende liberi).

Nel campo i deportati vengono rasati, lavati, gli viene fatta indossare la divisa a righe dei prigionieri e gli viene tatuato il numero, avviando il processo di spersonalizzazione. Gli viene detto che si trovano in un campo di lavoro. Il narratore ha la sensazione che tutto sia fatto allo scopo di burlarsi di loro e che il loro destino sia segnato fin dall’inizio. I nuovi arrivati incontrano a questo punto gli altri prigionieri che tornano dal lavoro. Un giovane ebreo polacco parla a Levi delle gerarchie interne del campo, vigenti anche tra i prigionieri, che sono divisi in politici, criminali ed ebrei. Vengono descritte le regole e i rituali assurdi e senza senso del campo.

Successivamente Levi inizia ad affrontare i problemi derivanti dalla convivenza di tante persone nel campo: la mescolanza di molte lingue, la confusione nel momento dei pasti, i problemi igienici. Inizia insieme agli altri gli strazianti turni di lavoro. Levi racconta di come l’esperienza fosse distruttiva e delle sue permanenze in infermeria. La sua laurea gli permette, dopo un apposito esame, di ottenere un impiego come chimico all’interno del campo. In una scena commovente, durante un momento di lavoro, Levi spiega a un compagno, un deportato francese, il XXVI canto dell’Inferno di Dante, in cui si narra la storia di Ulisse.

Nell’agosto 1944 ci sono dei bombardamenti da parte degli alleati, che interrompono il lavoro. In questo frangente Levi riporta le reazioni dei tedeschi di fronte una possibile sconfitta. Con l’arrivo dell’inverno ritornano i problemi causati dal freddo e i tedeschi incrementano le uccisioni nei forni crematori, facendo salire la tensione tra i prigionieri.

L’ultimo capitolo narra il ricovero di Levi colpito della scarlattina, che lo salva dall’uccisione di massa dei prigionieri messa in atto dai tedeschi quando si vedono ormai accerchiati dalle truppe russe. La storia termina con la fuga dei tedeschi e l’arrivo delle truppe russe, che liberano i prigionieri.


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La tregua

Nel 1963 Levi pubblica il suo secondo libro “La tregua”, cronache del ritorno a casa dopo la liberazione (il seguito del capolavoro “Se questo è un uomo“), per il quale gli viene assegnato il premio Campiello. Altre opere da lui composte sono: una raccolta di racconti dal titolo “Storie naturali”, con il quale gli viene conferito il Premio Bagutta; una seconda raccolta di racconti, “Vizio di forma”, una nuova raccolta “Il sistema periodico”, con cui gli viene assegnato il Premio Prato per la Resistenza; una raccolta di poesie “L’osteria di Brema” e altri libri come “La chiave a stella”, “La ricerca delle radici”, “Antologia personale” e “Se non ora quando”, con il quale vince per la seconda volta il Premio Campiello.

La trama

Il libro La tregua racconta tutto il periodo successivo alla prigionia ad Auschwitz di Primo Levi. L’opera comincia con l’arrivo delle truppe russe nel 1945 nel lager in cui si trovava Levi. Nel campo di concentramento erano rimasti in pochi, i malati per lo più.

Nonostante la liberazione, molti di loro muoiono nei giorni successivi, ormai debilitati nel corpo e nell’anima.
Primo Levi nel libro La tregua parla del suo recupero, dei suoi trasferimenti prima a Cracovia in una caserma di soldati italiani e poi in un campo di raccolta a Katowice. Lentamente l’uomo riesce a riconquistare le forze e fa amicizia con un intraprendente ebreo.

Quando la guerra finisce e i tedeschi sono sconfitti, negli ex detenuti si diffonde finalmente la speranza, ma tutti hanno nostalgia della propria casa e della famiglia, che sembrano ancora troppo lontani.

I Sommersi e i Salvati

Infine scrive nel 1986 un altro testo assai ispirato dall’emblematico titolo “I Sommersi e i Salvati”. Si tratta di un saggio che analizza la tragedia dei Lager nazisti, il ruolo delle vittime e degli aguzzini all’interno dei campi, l’importanza della testimonianza e il rischio che la memoria della persecuzione nazista venga dispersa o, peggio ancora, travisata e negata. Quello di Levi è, come già in Se questo è un uomo e ne La tregua, un rinnovato appello alla memoria dei lettori riguardo alla Shoah: non dimenticare, affinché la storia non debba ripetersi.

La morte

Primo Levi muore suicida l’11 aprile 1987, probabilmente lacerato dalle strazianti esperienze vissute e dal quel sottile senso di colpa che talvolta, assurdamente, si ingenera negli ebrei scampati all’Olocausto: di essere cioè “colpevoli” di essere sopravvissuti.

Bibliografia essenziale di Primo Levi

  • La tregua
  • Se questo è un uomo
  • Il fabbricante di specchi. Racconti e saggi
  • Conversazioni e interviste 1963-1987
  • Racconti: Storie naturali-Vizio di forma-Lilit
  • Sistema periodico
  • Se non ora, quando?
  • I sommersi e i salvati
  • La chiave a stella
  • Ad ora incerta
  • Vizio di forma
  • L’altrui mestiere
  • Lilit e altri racconti
  • Storie naturali
  • La ricerca delle radici

Frasi, citazioni e aforismi di Primo Levi

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L’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.
(La chiave a stella)

Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre.
(Se questo è un uomo)

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
(Se questo è un uomo)

Chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo.
(Frase attribuita a Primo Levi)

Devo dire che l’esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto. C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo.
(Ferdinando Camon, Conversazione con Primo Levi)

Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo. In questo libro se ne descrivono i segni: il disconoscimento della solidarietà umana, l’indifferenza ottusa o cinica per il dolore altrui, l’abdicazione dell’intelletto e del senso morale davanti al principio d’autorità, e principalmente, alla radice di tutto, una marea di viltà, una viltà abissale, in maschera di virtù guerriera, di amor patrio e di fedeltà a un’idea
(dalla prefazione al libro di Léon Poliakov, Auschwitz)

L’Olocausto è una pagina del libro dell’Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria
(Se questo è un uomo)

Non era semplice la rete dei rapporti umani all’interno dei Lager: non era riconducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori. (…) L’ingresso in Lager era invece un urto per la sorpresa che portava con sé. Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il «noi» perdeva i suoi confini.
(I sommersi e i salvati)

Nella storia e nella vita pare talvolta di discernere una legge feroce, che suona «a chi ha, sarà dato; a chi non ha, a quello sarà tolto».
(Se questo è un uomo)

I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere.
(Se questo è un uomo)

Oggi io penso che, se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza: ma è certo che in quell’ora il ricordo dei salvamenti biblici nelle avversità estreme passò come un vento per tutti gli animi.
(Se questo è un uomo)

Pochi sono gli uomini che sanno andare a morte con dignità, e spesso non quelli che ti aspetteresti.
(Se questo è un uomo)

Essi, gli altri prigionieri di Auschwitz, popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero.
(Se questo è un uomo)

Accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.
(Se questo è un uomo)

Il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo morale, a meno di potenti e diretti interventi della fortuna, non è stato concesso che a pochissimi individui superiori, della stoffa dei martiri e dei santi.
(Se questo è un uomo)

Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell’altro, incertezza del domani.
(Se questo è un uomo)

In questo Ka-Be, parentesi di relativa pace, abbiamo imparato che la nostra personalità è fragile, è molto più in pericolo che non la nostra vita; e i savi antichi, invece di ammonirci «ricordati che devi morire», meglio avrebbero fatto a ricordarci questo maggior pericolo che ci minaccia.
(Se questo è un uomo)

La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente, e meriterebbe uno studio approfondito. Si tratta di un prezioso lavorio di adattamento, in parte passivo e inconscio, e in parte attivo
(Se questo è un uomo)

Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.
(Se questo è un uomo)

Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice.
(Se questo è un uomo)

Il Lager è la fame.
(Se questo è un uomo)

Chi diventava Kapo? Occorre ancora una volta distinguere. In primo luogo, coloro a cui la possibilità veniva offerta, e cioè gli individui in cui il comandante del Lager o i suoi delegati (che spesso erano buoni psicologi) intravedevano la potenzialità del collaboratore: rei comuni tratti dalle carceri, (…) Ma molti, come accennato, aspiravano al potere spontaneamente: lo cercavano i sadici (…). Lo cercavano i frustrati (…) Lo cercavano, infine, i molti fra gli oppressi che subivano il contagio degli oppressori e tendevano inconsciamente ad identificarsi con loro.
(I sommersi e i salvati)

Quest’anno è passato presto. L’anno scorso a quest’ora io ero un uomo libero: fuori legge ma libero, avevo un nome e una famiglia, possedevo una mente avida e inquieta e un corpo agile e sano. Pensavo a molte lontanissime cose: al mio lavoro, alla fine della guerra, al bene e al male, alla natura delle cose e alle leggi che governano l’agire umano; e inoltre alle montagne, a cantare, all’amore, alla musica, alla poesia. Avevo una enorme, radicata, sciocca fiducia nella benevolenza del destino, e uccidere e morire mi parevano cose estranee e letterarie. I miei giorni erano lieti e tristi, ma tutti li rimpiangevo, tutti erano densi e positivi; l’avvenire mi stava davanti come una grande ricchezza. Della mia vita di allora non mi resta oggi che quanto basta per soffrire la fame e il freddo; non sono più abbastanza vivo per sapermi sopprimere.
(Se questo è un uomo)

A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager.
(Se questo è un uomo)

Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.
(La tregua)

Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti.
(La tregua)

Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.
(La tregua)

Perché ognuno è l’ebreo di qualcuno, perché i polacchi sono gli ebrei dei tedeschi e dei russi.
(Se non ora quando?)

In ogni gruppo umano esiste una vittima predestinata: uno che porta pena, che tutti deridono, su cui nascono dicerie insulse e malevole, su cui, con misteriosa concordia, tutti scaricano i loro mali umori e il loro desiderio di nuocere.
(La tregua)

Quando c’è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto: in primo luogo alle scarpe, in secondo alla roba da mangiare; e non viceversa, come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovar da mangiare, mentre non vale l’inverso. – Ma la guerra è finita, – obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi. – Guerra è sempre, – rispose memorabilmente Mordo Nahu.
(La tregua)

Il termine «libertà» ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo.
(La chiave a stella)

Davanti al 40 di Viale Gorizia c’era una panchina: Giulia mi disse di aspettarla, ed entrò nel portone come un vento. (…) Ha avuto molte traversie e molti figli; siamo rimasti amici, ci vediamo a Milano ogni tanto e parliamo di chimica e di cose sagge. Non siamo malcontenti delle nostre scelte e di quello che la vita ci ha dato, ma quando ci incontriamo proviamo entrambi la curiosa e non sgradevole impressione (ce la siamo più volte descritta a vicenda) che un velo, un soffio, un tratto di dado, ci abbia deviati su due strade divergenti che non erano le nostre.
(Il sistema periodico)

Lei deve sapere che farmi avanti quando tutti si fanno indietro a me mi è sempre piaciuto, e mi piace ancora.
(La chiave a stella)

Infatti, come c’è un’arte di raccontare, solidamente codificata attraverso mille prove ed errori, così c’è pure un’arte dell’ascoltare, altrettanto antica e nobile, a cui tuttavia, che io sappia, non è stata mai data norma.
(La chiave a stella)

E malinconicamente vero che molti lavori non sono amabili, ma è nocivo scendere in campo carichi di odio preconcetto: chi lo fa, si condanna per la vita a odiare non solo il lavoro, ma se stesso e il mondo.
(La chiave a stella)

Io ho idea che se certi lavori li insegnassero a scuola, invece di Romolo e Remo, si guadagnerebbe.
(La chiave a stella)

Io sulle prime credevo che fosse una ragazza un po’ strana, perché non avevo esperienza e non sapevo che tutte le ragazze sono strane, o per un verso o per un altro, e se una non è strana vuol dire che è ancora più strana delle altre, appunto perché è fuori quota, non so se mi spiego.
(La chiave a stella)

E già difficile per il chimico antivedere, all’infuori dell’esperienza, l’interazione fra due molecole semplici; del tutto impossibile predire cosa avverrà all’incontro di due molecole moderatamente complesse. Che predire sull’incontro di due esseri umani?
(La chiave a stella)

Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine, ed in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti.
(da Un passato che credevamo non dovesse tornare più, Corriere della sera, 8 maggio 1974)

E’ ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le assimila a sé, e ciò è tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica o morale. Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori.
(I sommersi e i salvati)

A contrasto con una certa stilizzazione agiografica e retorica, quanto più è dura l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare con il potere.
(I sommersi e i salvati)

Non so, e non mi interessa sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o un vezzo estetico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità. (…) Rimane vero che, in Lager e fuori, esistono persone grigie, ambigue, pronte al compromesso. La tensione estrema del Lager tende ad accrescerne la schiera.
(I sommersi e i salvati)

I “salvati” del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della “zona grigia”, le spie. Non era una regola certa (non c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti.
(I sommersi e i salvati)

Non esistono problemi che non possano essere risolti intorno a un tavolo, purché ci sia volontà buona e fiducia reciproca: o anche paura reciproca.
(I sommersi e i salvati)

Il fascismo non era soltanto un malgoverno buffonesco e improvvido, ma il negatore della giustizia; non aveva soltanto trascinato l’Italia in una guerra ingiusta ed infausta, ma era sorto e si era consolidato come custode di un ordine e di una legalità detestabili, fondati sulla costrizione di chi lavora, sul profitto incontrollato di chi sfrutta il lavoro altrui, sul silenzio imposto a chi pensa e non vuole essere servo, sulla menzogna sistematica e calcolata.
(Il sistema periodico)

Ma venne in novembre lo sbarco alleato in Nord Africa, venne in dicembre la resistenza e poi la vittoria russa a Stalingrado, e capimmo che la guerra si era fatta vicina e la storia aveva ripreso il suo cammino. Nel giro di poche settimane ognuno di noi maturò, più che in tutti i vent’anni precedenti. Uscirono dall’ombra uomini che il fascismo non aveva piegati, avvocati, professori ed operai, e riconoscemmo in loro i nostri maestri, quelli di cui avevamo inutilmente cercato fino allora la dottrina nella Bibbia, nella chimica, in montagna. Il fascismo li aveva ridotti al silenzio per vent’anni.
(Il sistema periodico)

Se potessi mi riempirei la casa di tutti gli animali possibili. Farei ogni sforzo non solo per osservarli, ma anche per entrare in comunicazione con loro. Non farei questo in vista di un traguardo scientifico (non ne ho la cultura né la preparazione), ma per simpatia, e perché sono sicuro che ne trarrei uno straordinario arricchimento spirituale e una più compiuta visione del mondo. In mancanza di meglio, leggo con godimento e stupore sempre rinnovati molti libri vecchi e nuovi che parlano di animali, e mi pare di ricavarne un nutrimento vitale, indipendentemente dal loro valore letterario o scientifico. Possono anche essere pieni di bugie, come il vecchio Plinio: non ha importanza, il loro valore sta nei suggerimenti che forniscono.
(Ranocchi sulla luna e altri animali)

Il mondo in cui noi occidentali oggi viviamo presenta molti e gravissimi difetti e pericoli, ma rispetto al mondo di ieri gode di un gigantesco vantaggio: tutti possono sapere subito tutto su tutto. L’informazione è oggi «il quarto potere»: almeno in teoria.
(Se questo è un uomo)

Non ho perdonato nessuno dei colpevoli, né sono disposto ora o in avvenire a perdonarne alcuno, a meno che non abbia dimostrato (coi fatti: non con le parole, e non troppo tardi) di essere diventato consapevole delle colpe e degli errori del fascismo nostrano e straniero, e deciso a condannarli, a sradicarli dalla sua coscienza e da quella degli altri.
(Se questo è un uomo)

È meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis. E meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate.
(Se questo è un uomo)

È certamente vero che il terrorismo di Stato è un’arma fortissima, a cui è ben difficile resistere; ma è anche vero che il popolo tedesco, nel suo complesso, di resistere non ha neppure tentato. Nella Germania di Hitler era diffuso un galateo particolare: chi sapeva non parlava, chi non sapeva non faceva domande, a chi faceva domande non si rispondeva.
(Se questo è un uomo)

Se dall’interno dei Lager un messaggio avesse potuto trapelare agli uomini liberi, sarebbe stato questo: fate di non subire nelle vostre case ciò che a noi viene inflitto qui.
(Se questo è un uomo)

Francesco Piccolo

Giornalista professionista, direttore del network L'Occhio che comprende le redazioni di Salerno, Napoli, Benevento, Caserta ed Avellino. Direttore anche di TuttoCalcioNews e di Occhio alla Sicurezza.

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