La Corte d’Appello ha emesso un nuovo verdetto per sei imputati legati al clan Fezza-De Vivo, già condannati in primo grado con rito abbreviato.
I giudici hanno parzialmente accolto l’appello presentato da Anthony Acquaviva, difeso dagli avvocati Annalisa Califano e Luigi Calabrese, riducendo la pena per il processo in questione a 7 anni di reclusione, che si sommano ad altre sentenze per un totale di 12 anni di carcere, grazie al riconoscimento del vincolo della continuazione tra i reati come riportato dall’edizione odierna del quotidiano Il Mattino.
Camorra, confermate le condanne per il clan Fezza – De Vivo
Le altre condanne sono state invece confermate: Rosario Giugliano, ex boss della Nuova Famiglia e oggi collaboratore di giustizia, dovrà scontare 9 anni e 8 mesi; Francesco Sorrentino, 10 anni e 2 mesi; Raffaele Carrillo, 5 anni e 6 mesi; Antonio Fisichella, 3 anni e 10 mesi; e Salvatore Giglio, 9 anni e 8 mesi. Le motivazioni della sentenza saranno depositate entro novanta giorni. Nel collegio difensivo figurano anche gli avvocati Giuseppe Della Monica, Vincenza Granata e Alfonso D’Aniello.
La vicenda giudiziaria è legata a un’indagine della Direzione Distrettuale Antimafia (DDA) di Salerno, condotta dal Pm Elena Guarino, che ha ricostruito l’esistenza di una “federazione” tra i clan Fezza-De Vivo di Pagani e il gruppo capeggiato da Rosario Giugliano, noto come “’o minorenn”. Le investigazioni, portate avanti da Squadra Mobile, Carabinieri e Guardia di Finanza, hanno fatto emergere la struttura organizzativa del clan, con Francesco Fezza e Andrea De Vivo come referenti principali a Pagani.
Le accuse
Tra i reati contestati ai vari imputati figurano associazione mafiosa, estorsione, possesso illegale di armi, intestazione fittizia di beni, tentato omicidio, favoreggiamento, riciclaggio, spaccio di stupefacenti e infiltrazioni nella pubblica amministrazione. L’inchiesta ha anche rivelato il controllo del traffico di droga a Pagani: il clan imponeva tangenti mensili ai capi piazza, lasciando loro la libertà di acquistare gli stupefacenti da qualsiasi fornitore, ma punendo severamente i ritardi nei pagamenti.
Dopo aver scalzato la famiglia D’Auria Petrosino, il clan Fezza-De Vivo aveva adottato una nuova strategia di gestione del narcotraffico. Contestualmente, l’organizzazione aveva ampliato i suoi interessi in altri settori, come la pubblica amministrazione: in piena pandemia, il gruppo cercò di monopolizzare il servizio di sanificazione, arrivando a pestare un imprenditore concorrente.