È uno scrittore prolifico, Vincenzo Gambardella. Lo scrittore minoritano, milanese di adozione, docente di arte ed immagine, è riuscito a guadagnarsi un degno posto nella novellistica e nel racconto.
Lo scrittore Roberto Cotroneo è molto chiaro quando discorre della letteratura contemporanea: “Oggi quello che manca è il rispetto delle gerarchie; se uno scrittore risulta inquadrato dal suo pubblico come un bravo scrittore di romanzi popolari è giusti che rimanga nel popolare; se egli muta genere all’improvviso è destinato a soccombere e a deludere”.
Lo scrittore Vincenzo Gambardella
Vincenzo Gambardella, scrittore colto dallo stile elegante, ha sempre fatto fede al suo genere, il racconto di personaggi umili, quasi picareschi. Nel suo precedente Vinicio Sparafuoco detto Toccacielo , Gambardella aveva descritto le vicessitudini del fuochista amalfitano e dei suoi compagni nel contesto caratteristico della costiera.
“Mi chiamo Ivan Muthiac e vengo di Sarajevo” (Il Seme Bianco, 2019) narra la storia di un ragazzo pridigio che , in fuga dalla guerra di Sarajevo girovaga con la sua chitarra. La passione per la musica lo porta a trascurare la famiglia a cui è affidato.
Gambardella, per delineare la personalità di Ivan Muthiac, a quali riferimenti letterari ha fatto riferimento?
Innanzitutto, quello che è rilevante in me, è la mia vocazione di scrittore, che si è manifestata abbastanza presto, e mi consente di essere libero nella mia esperienza, sicuro di ciò che mi arriva in dono. Per cui a scuola studiavo Dante, Manzoni e Leopardi, e, allo stesso tempo, nella libreria di casa, scoprivo Kafka, Hemingway, Moravia.
Ma soprattutto leggevo i poeti, in particolare Eliot, Auden, Rimbaud, Ginsberg, Ferlinghetti, Edgar Lee Masters, Dylan Thomas. Poi sono cresciuto, ho incominciato a pubblicare, in questo ultimo mio romanzo devo molto allo scrittore ebreo Appelfeld e alla sua autobiografia “Storia di una vita”. Credo che la forza di Ivan Muthiac venga da lì. Ma penso anche dai libri di Flannery O’Connor, dal suo cristianesimo istintivo.
Come si sviluppa la trama del Suo nuovo racconto?
Ivan Muthiac è un prodigio della chitarra, ma è anche un ragazzino in fuga dalla guerra di Sarajevo. Arriva a Napoli, dove inizia a suonare le serenate con i suoi amici, cioè le postegge d’amore. A causa della sua passione per la musica Ivan trascura tutto e la famiglia a cui è affidato finisce per rifiutarlo. Viene trasferito a Milano, in una comunità di orfani. A scuola conosce un professore di chitarra che gli fa ascoltare la musica di Django Reinhardt; e lui diventa un erede del grande chitarrista zingaro.
Attraverso varie e acrobatiche vicende, la vita di Ivan Muthiac viene raccontata per un anno intero, fino a quando il protagonista compie sedici anni, il momento in cui potrà abbandonare la scuola e seguire il suo talento straordinario.
Vi è qualche collegamento letterario, onirico, stilistico tra il protagonista Ivan e gli altri protagonisti dei Suoi precedenti romanzi?
Spesso i miei protagonisti sono ragazzi, si tratta di personaggi segnati dalla grazia, che scoprono la ricchezza non nella loro volontà, bensì nel riconoscimento di una dimensione più alta, spirituale, del tutto coerente con la loro natura.
La tua ispirazione è mutata quando scrivevi questi due libri, vale a dire Vinicio Sparafuoco e Ivan?
Si cambia sempre. Il segreto è cambiare se stessi, o metterci nelle condizioni di farci cambiare attraverso un percorso profondo, che riguarda la vita, come la letteratura e lo scrivere. Comunque riconosco molti punti di contatto fra Vinicio e Ivan, c’è sempre lo stile espressionistico, l’elemento picaresco, la musica, l’avventura, l’invenzione linguistica, il Testori del Dio di Roserio e degli svariati suoi drammi teatrali.
Se Lei dovesse paragonare Ivan Muthiac a qualche personaggio della tradizione letteraria italiana o francese (penso alla tradizione espressionista cui Lei faceva riferimento), quale sceglierebbe?
Penso che Ivan sia unico, anche se, essendo io insegnante, ho conosciuto davvero tanti Ivan Muthiac. Senz’altro la figura dell’orfano rimanda ai personaggi di Dickens, ma, come ho detto, è l’autobiografia di Appelfeld che mi ha veramente colpito.
Così pure devo molto agli adolescenti delle storie di Flannery O’Connor. Personaggi radicali insomma, liberi, di carattere, e proprio perché liberi, coscienti di essere fatti non di volontà ma di amore. Sullo sfondo vi è una dura, direi realistica considerazione delle nostre dissestate istituzioni educative, ovvero: la scuola italiana, che dovrebbe avere lo scopo primario di essere formativa, mentre invece mostra un forte limite. Il mio interesse, in questo caso, era di dare un mio vivace contributo all’attuale riflessione.