Economia

Fallimento che cos’è e quali le conseguenze – le procedure fallimentari

Che cos’è il fallimento? E la procedura fallimentare? Quali sono le conseguenze? L’istituto del “fallimento” è regolato dal r.d. n. 267 del 16/03/1942 (Legge Fallimentare), che detta una disciplina che, negli anni, ha subito profonde modifiche volte ad adeguarla al diritto nazionale e comunitario, in un’ottica non solo “punitiva”, ma tesa a garantire (nei limiti del possibile) la conservazione dell’impresa come complesso produttivo e la semplificazione ed accelerazione delle procedure.

In data 10 gennaio 2019, è stato approvato in via definitiva il nuovo “Codice della crisi e dell’insolvenza“, che ha ridisegnato in maniera sostanziale l’istituto. La maggior parte delle sue disposizioni, tuttavia, entrerà in vigore solo decorsi 18 mesi dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

Vediamo quindi le regole che sono attualmente in vigore.

Presupposti per la declaratoria di fallimento

Per poter dichiarare il fallimento, la legge richiede il concorso di due presupposti: uno soggettivo e l’altro oggettivo.

Fallimento: il presupposto soggettivo

Quanto al presupposto soggettivo, l’art. 1 della L.F. individua tra gli assoggettabili al fallimento gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, escludendo gli enti pubblici, gli imprenditori agricoli e i piccoli imprenditori.

Con la riforma del 2006, il legislatore ha rimodellato il concetto di piccolo imprenditore, per restringere il numero dei soggetti assoggettabili alle procedure concorsuali, escludendo dalla categoria gli esercenti un’attività commerciale, in forma individuale o collettiva, che, anche alternativamente:

  1. hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a 300.000 euro;
  2. hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a 200.000 euro.

Tali limiti possono essere aggiornati ogni tre anni, con decreto del Ministro della Giustizia in base alle variazioni degli indici ISTAT.

Il presupposto oggettivo

Per quanto riguarda invece il presupposto oggettivo, l’art. 5 del r.d. n. 267/1942 dispone che l’imprenditore, per essere dichiarato fallito, deve trovarsi in stato d’insolvenza tale da non poter più soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, “lo stato d’insolvenza dell’imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione d’impotenza strutturale e non soltanto transitoria a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito dei venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività” (Cass. n. 4789/2005).

Una più recente Cassazione (Sez. 6 civile, ordinanza n. 12652/2013) ha ulteriormente precisato che lo stato d’insolvenza “… consiste nell’oggettiva impossibilità in cui si trova l’imprenditore, con riferimento al momento della dichiarazione medesima, di far fronte, per il venir meno delle normali condizioni di liquidità e di credito, tempestivamente e con mezzi ordinari alle proprie obbligazioni. Pertanto, le circostanze inerenti alla concreta sussistenza o meno di una o più obbligazioni rimaste inadempiute, al loro ammontare, al rapporto fra passivo ed attivo dell’impresa, alla possibilità o meno di estinguere i debiti dopo la dichiarazione di fallimento, senza far ricorso a liquidazione di attività, se nonpossono considerarsi decisive, singolarmente esaminate, al fine dell’affermazione o negazione dello stato d’insolvenza, costituiscono, d’altra parte, elementi presuntivi idonei ad evidenziare, ove valutati nel loro insieme, la ricorrenza o meno dell’indicata obiettiva incapacità dell’imprenditore a fronteggiare i propri impegni. (Cass. 3250/73; Cass. 1036/72; Cass. 1274/78 ; Cass. 4727/04; Cass. 9253/12).

Dichiarazione di fallimento: l’iniziativa

La riforma del 2006 è intervenuta significativamente sull’iniziativa per la dichiarazione di fallimento. Secondo quanto stabilito dall’art. 6 del r.d. n. 267/1942, come sostituito dall’art. 4 del d. lgs. n. 5/2006, il fallimento viene dichiarato su ricorso del debitore, di uno o più creditori o su richiesta del pubblico ministero.

L’art. 6 della L.F. novellato ha eliminato ogni riferimento all’iniziativa d’ufficio per la dichiarazione di fallimento, ipotesi circoscritta e permessa solo nei casi contemplati e delineati dal successivo art. 7, che prevede l’iniziativa del pubblico ministero quando: l’insolvenza risulta nel corso di un procedimento penale, o dalla fuga, irreperibilità o latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell’attivo o perché segnalata dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile.

Obblighi dell’imprenditore che chiede il fallimento

L’art. 14 della L.F. sancisce determinati obblighi a carico dell’imprenditore che chiede il proprio fallimento, tra cui il deposito, presso la cancelleria del tribunale: delle scritture contabili e fiscali obbligatorie concernenti i tre esercizi precedenti o, se l’impresa ha avuto minore durata, dell’intera esistenza della stessa; uno stato particolareggiato ed estimativo delle attività; nonché l’elenco nominativo dei creditori (e dei rispettivi crediti) l’indicazione dei ricavi lordi per ciascuno degli ultimi tre esercizi (il d.lgs 12/09/2007 n. 169 ha sostituito il termine ultimi tre “anni”) e di coloro che vantano diritti reali e personali sui beni in suo possesso (e relativi titoli da cui sorgono i rispettivi diritti).

Cancellazione dal registro delle imprese

Gli imprenditori, individuali e collettivi, possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo. In caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, inoltre è prevista la facoltà per il creditore o il pubblico ministero di dimostrare il momento dell’effettiva cessazione dell’attività’ da cui decorre il termine sancito dal primo comma (art. 10).

Fallimento dell’imprenditore defunto

Alle stesse condizioni è sottoposto il fallimento dell’imprenditore defunto (art. 11), che può avvenire anche su richiesta dell’erede, purché non vi sia stata già la confusione del cespite ereditario con il suo patrimonio. L’art. 12, infine, prevede che nel caso di decesso dell’imprenditore successivo alla dichiarazione di fallimento, la procedura prosegua nei confronti degli eredi, anche con beneficio d’inventario.

Competenza per il fallimento

Secondo il primo comma dell’art. 9 L.F., il fallimento è dichiarato dal tribunale del luogo in cui l’imprenditore ha la sede principale dell’impresa.

Gli organi del fallimento

Il tribunale fallimentare (art. 23 L.F.) è investito dell’intera procedura e provvede alla nomina, revoca o sostituzione degli organi del fallimento (giudice delegato, curatore e comitato dei creditori), soggetti su cui la riforma del 2006 ha profondamente inciso, ridimensionato il ruolo del giudice delegato ed attribuendo maggiore autonomia al curatore e al comitato dei creditori.

Sulla base del nuovo testo dell’art. 25 L.F., il giudice delegato, in passato deputato a dirigere e gestire le operazioni del fallimento, oggi esercita “funzioni di vigilanza e controllo sulla regolarità della procedura”, mantenendo il potere di approvare il programma di liquidazione e di pronunciarsi sulle domande di ammissione al passivo dei creditori .

Ex art. 31 L.F. il curatore ha invece mantenuto la funzione di amministrare il patrimonio fallimentare, compiendo tutte le operazioni necessarie per la gestione della procedura. Inoltre, grazie alla riforma 2006, è competente all’apposizione dei sigilli sui beni del debitore ed alla formazione del progetto di stato passivo, prima attribuito al giudice delegato, oltre alla redazione dell’inventario, alla compilazione dell’elenco dei creditori (con l’indicazione dei rispettivi crediti, dei diritti di prelazione e degli eventuali altri diritti), nonché alla redazione del bilancio dell’ultimo esercizio.

È chiamato, altresì, unitamente al comitato dei creditori ad un ruolo più autonomo, finalizzato a compiere le scelte più opportune per una migliore gestione della procedura, sotto la vigilanza (e non più sotto la direzione) del giudice delegato e del comitato dei creditori.

In passato chiamato solamente a fornire il proprio parere nei casi obbligatori e su richiesta del curatore, il comitato dei creditori ha acquisito, con la novella del 2006, nuove competenze, nell’ottica di realizzare una concreta operatività dello stesso sin dall’avvio della procedura fallimentare. Nominato dal giudice delegato, entro 30 giorni dalla sentenza di fallimento, il comitato è composto da tre o cinque membri scelti tra i creditori, al fine di garantire una rappresentanza equilibrata, con compiti di vigilanza sull’operato del curatore, di autorizzazione degli atti dello stesso e di rilascio pareri, sia nei casi previsti dalla legge che su richiesta del tribunale o del giudice delegato (art. 41 L.F.). Alla luce delle suddette riforme, il ruolo del Tribunale è divenuto residuale, poiché si limita a sovraintendere la gestione delle attività che non spettano al curatore e al giudice delegato.

Fallimento: il procedimento

Il procedimento fallimentare si svolge innanzi al tribunale in composizione collegiale e in camera di consiglio (art. 15 L.F.).

Per garantire il contraddittorio tra le parti, il comma 2 dell’art. 15 L.F. dispone che: “il tribunale convoca, con decreto apposto in calce al ricorso, il debitore ed i creditori istanti per il fallimento; nel procedimento interviene il pubblico ministero che ha assunto l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento”.

Per accelerare e semplificare la procedura inoltre è previsto che il decreto di convocazione e il ricorso vengano notificati, a cura della cancelleria, all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore risultante dal registro delle imprese o dall’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti.

Il decreto contiene l’indicazione che il procedimento è volto all’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento e fissa un termine non inferiore a 7 giorni, prima dell’udienza, per la presentazione di memorie e il deposito di documenti e relazioni tecniche. In ogni caso, il tribunale dispone che l’imprenditore depositi i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, nonché una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata.

La sentenza dichiarativa di fallimento

Secondo l’art. 16 del r.d. n. 267/1942, modificato dalla novella del 2006, il tribunale dichiara il fallimento con sentenza, con la quale vengono nominati il giudice delegato per la procedura e il curatore e viene ordinato al fallito il deposito dei bilanci, delle scritture contabili e fiscali obbligatorie nonché l’elenco dei creditori entro 3 giorni. La sentenza fissa inoltre il luogo, il giorno e l’ora dell’adunanza in cui si procederà all’esame dello stato passivo (entro il termine perentorio di 120 giorni) e assegna ai creditori e dei terzi, che vantano diritti reali o personali sui beni del fallito il termine (entro 30 giorni prima dell’adunanza dei creditori) per proporre domanda di insinuazione al passivo in cancelleria. La sentenza dichiarativa di fallimento produce i suoi effetti dalla data della pubblicazione ai sensi dell’art. 133, 1° comma, c.p.c., mentre nei confronti dei terzi gli effetti si producono dalla data di iscrizione della sentenza nel registro delle imprese (art. 17, 2° comma, L.F.). Contro la sentenza, ex art. 18 r.d. n. 267/1942, si può proporre reclamo entro 30 giorni.

Gli effetti del fallimento

La sentenza che dichiara il fallimento produce una serie di effetti giuridici nei confronti del fallito (artt. 42-49 L.F.) e dei creditori (artt. 51-63 L.F.), nonché sugli atti pregiudizievoli ai creditori e sui rapporti giuridici preesistenti (artt. 64-83 bis L.F.). Nei riguardi del debitore, la sentenza che dichiara il fallimento:

  • – “priva dalla sua data il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento”, ivi compresi i beni che pervengono al fallito durante il fallimento, salva rinuncia da parte del curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, all’acquisizione degli stessi, qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione siano superiori al valore presumibile di realizzo (art. 42 L.F.).
  • – determina la perdita, per il fallito, della legittimazione processuale nelle controversie relative ai rapporti di diritto patrimoniale, per le quali potrà stare in giudizio il curatore (art. 43 L.F.) a meno che non vi siano, a suo carico, imputazioni di bancarotta e se il suo intervento è previsto dalla legge. Il d.l. 27/06/2015 n. 83 ha disposto l’introduzione di un nuovo comma e la modifica dell’ultimo dell’art. 43, che risulta ora del seguente tenore: 3. L’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo. 4. Le controversie in cui è parte un fallimento sono trattate con priorità. Il capo dell’ufficio trasmette annualmente al presidente della corte di appello i dati relativi al numero di procedimenti in cui è parte un fallimento e alla loro durata, nonché le disposizioni adottate per la finalità di cui al periodo precedente. Il presidente della corte di appello ne dà atto nella relazione sull’amministrazione della giustizia.”
  • – determina l’inefficacia di ogni atto compiuto dal fallito o di pagamenti dallo stesso ricevuti dopo la sentenza dichiarativa di fallimento (art. 44);
  • – fa sorgere l’obbligo in capo al fallito, ove si tratti di persona fisica, di consegnare la propria corrispondenza al curatore, inclusa quella elettronica, ovvero, qualora il fallito sia persona giuridica, di indirizzare la corrispondenza al curatore (art. 48).

Effetti nei riguardi dei creditori

Gli effetti del fallimento nei riguardi dei creditori sono disciplinati dall’art. 51 L.F., il quale stabilisce che dal giorno della dichiarazione del fallimento nessuna azione (individuale, esecutiva o cautelare), anche riguardante crediti maturati durante il fallimento, può essere iniziata o proseguita sui beni nello stesso compresi. La procedura fallimentare, infatti, apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito, pertanto, ogni credito, anche munito di diritto di prelazione, “nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal Capo V, salvo diverse disposizioni della legge” (art. 52 L.F.).

Nella sezione III (artt. 64-70) sono regolati gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori (c.d. “revocatoria fallimentare”). Il d.lgs. 16 novembre 2015, n. 180 ha attribuito l’esercizio delle azioni di revoca degli atti compiuti in frode dei creditori ai commissari speciali, se nominati, o a un soggetto designato dalla Banca d’Italia.

  • – Viene sancito che gli atti a titolo gratuito e i pagamenti (con scadenza posteriore alla dichiarazione di fallimento) compiuti dal fallito nei due anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento siano privi di effetto rispetto ai creditori.
  • – Gli atti a titolo oneroso, i pagamenti e le garanzie, salvo che l’altra parte provi che non conosceva lo stato di insolvenza del debitore, sono invece revocati. In virtù dell’art 67-bis però: Gli atti che incidono su un patrimonio destinato ad uno specifico affare previsto dall’articolo 2447-bis, primo comma, lettera a) del codice civile, sono revocabili quando pregiudicano il patrimonio della società’.”

Rientrano tra gli atti revocati anche quelli compiuti tra coniugi, nel tempo in cui il fallito esercitava un’impresa commerciale, salvo che il coniuge non provi che ignorava lo stato d’insolvenza del coniuge (art. 69 L.F.).

Effetti del fallimento sui rapporti giuridici

La sezione IV (artt. 72-83 bis), infine, si occupa “degli effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti”, ove viene disposto che, nei contratti ancora ineseguiti o non completamente eseguiti da entrambe le parti, in caso di fallimento di una delle due parti, l’esecuzione del contratto rimane sospesa fino a quando il curatore dichiara di subentrare nello stesso in luogo del fallito, assumendo tutti gli obblighi relativi, ovvero di sciogliersi dal medesimo (art. 72). La disciplina fallimentare appare incompleta in quanto alcuni contratti sono regolamentati dal codice civile (vedi lavoro e società).

L’esercizio provvisorio dell’impresa

Con la sentenza dichiarativa del fallimento, il tribunale può disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa, anche limitatamente a specifici rami d’azienda, laddove l’interruzione delle attività possa arrecare gravi pregiudizi ai creditori. La continuazione temporanea dell’impresa è autorizzata dal giudice delegato, su proposta del curatore e previo parere favorevole del comitato dei creditori, con decreto motivato che ne determinata anche la durata. Qualora il comitato dei creditori, convocato trimestralmente dal curatore per essere informato sull’andamento della gestione, non ravvisa l’opportunità di continuare l’esercizio provvisorio, il giudice delegato ne ordina la cessazione.

Rimane ferma la possibilità per il tribunale di ordinare la cessazione dell’esercizio provvisorio in qualsiasi momento, laddove se ne ravvisi l’esigenza, con decreto motivato.

Ex art. 104-bis, inoltre, il giudice delegato può disporre l’affitto dell’intera azienda o di rami della stessa a terzi, quando ciò appare utile e proficuo per la procedura e per una durata compatibile con le esigenze della stessa. La mini riforma realizzata con il d.l. 5/01/2015, n. 1 ha stabilito che: “L’autorizzazione di cui al quinto comma dell’articolo 104-bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e’ rilasciata dal Ministro dello sviluppo economico e al comitato dei creditori previsto dal terzo e quinto comma si sostituisce il comitato di sorveglianza.”

La scelta dell’affittuario è effettuata dal curatore a norma dell’art. 107, tenendo conto dell’ammontare del canone offerto, delle garanzie prestate e dell’attendibilità del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, della conservazione dei livelli occupazionali.

La custodia e l’amministrazione del fallimento

Dichiarato il fallimento, si entra nella fase della custodia e dell’amministrazione delle attività fallimentari, modificate dalla riforma del 2006.

In forza dell’art. 84, il curatore procede, secondo le norme del codice di procedura civile, ad apporre i sigilli sui beni situati presso la sede principale dell’impresa e su tutti gli altri beni del debitore, con la possibilità di chiedere, se necessaria, l’assistenza della forza pubblica. Laddove tali beni si trovino, invece, in diversi luoghi, per completare le operazioni, l’apposizione dei sigilli può essere delegata ad uno o a più coadiutori designati dal giudice delegato.

Al curatore devono, inoltre, essere consegnati, al fine del deposito in un luogo idoneo, anche presso terzi: le somme di denaro contante; i titoli (compresi quelli scaduti), le scritture contabili, e ogni altra documentazione dallo stesso richiesta o acquisita, se non ancora depositata in cancelleria (art. 86). Rimossi i sigilli, il curatore deve redigere l’inventario nel più breve termine possibile, avvisando il fallito e il comitato dei creditori, se non presenti, redigendo processo verbale delle attività compiute (art. 87) e prendendo in consegna i beni del fallito.

Prima di chiudere l’inventario, il curatore invita il fallito (o gli amministratori se si tratta di società), a fornire notizie su eventuali altre attività da includere nell’inventario e, in seguito, lo deposita nella cancelleria del tribunale.

Esaminate le scritture contabili, gli atti e le notizie della procedura, il curatore, ai sensi dell’art. 89, deve stilare l’elenco dei creditori e dei titolari di diritti reali e personali, mobiliari e immobiliari e redigere il bilancio dell’ultimo esercizio, se non è stato presentato dal fallito che chiede il proprio fallimento ai sensi dell’art. 14.

L’art. 90 prevede infine la formazione del fascicolo (anche informatico) della procedura fallimentare a cura del cancelliere dopo la pubblicazione della sentenza di fallimento e il diritto da parte dei soggetti indicati di prenderne visione ed estrarne copia.

L’accertamento del passivo

Elemento distintivo del fallimento rispetto alle altre procedure concorsuali è la fase dell’accertamento del passivo.

A norma dell’art. 92, il curatore, esaminate le scritture contabili e gli altri atti, comunica “senza indugio” ai creditori del fallito (e ai titolari di diritti reali, personali, mobiliari o immobiliari sui beni del fallito), a mezzo posta ordinaria, elettronica o telefax: che è possibile partecipare al concorso trasmettendo “domanda di ammissione al passivo”, secondo i requisiti di cui all’art. 93; la data fissata per l’esame dello stato passivo e quella entro cui vanno presentate le domande; oltre a ogni utile informazione per agevolare la presentazione della domanda e il suo indirizzo di posta elettronica certificata.

Esaminate le domande presentate, il curatore predispone elenchi separati dei creditori e dei titolari degli altri diritti sui beni del fallito rassegnando motivate conclusioni e depositando il progetto di stato passivo in cancelleria almeno 15 giorni prima dell’udienza fissata per l’esame, trasmettendolo al contempo ai creditori (art. 95 L.F.) Il d.l. 3/05/2016, n. 59 ha aggiunto all’art. 95 il seguente comma: “In relazione al numero dei creditori e alla entità’ del passivo, il giudice delegato può’ stabilire che l’udienza sia svolta in via telematica con modalità’ idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione dei creditori, anche utilizzando le strutture informatiche messe a disposizione della procedura da soggetti terzi.”

All’udienza, il giudice delegato decide su ciascuna domanda nei limiti delle conclusioni formulate e avuto riguardo alle eccezioni del curatore, oltre a quelle rilevabili d’ufficio e a quelle formulate agli altri interessati, potendo anche sentire il fallito, su sua richiesta.

Dopo la dichiarazione di esecutività dello stato passivo (art. 96), con decreto motivato del giudice delegato, il curatore è tenuto a comunicare ad ogni creditore l’esito della domanda, il deposito in cancelleria dello stato passivo (al fine di renderlo disponibile per la disamina da parte di coloro che hanno presentato domanda), informando altresì del diritto di proporre opposizione (art. 97), secondo le disposizioni di cui all’art. 98, nell’ipotesi di mancato accoglimento.

La liquidazione e la ripartizione dell’attivo

Per quanto concerne la liquidazione dell’attivo, l’art. 104-ter ha subito importanti modifiche da parte dei seguenti provvedimenti legislativi: d.l. 5/2006, d.l. 169/2007, d.l. 83/2015, d.l. 69/2016. Il testo attuale prevede infatti che “Entro sessanta giorni dalla redazione dell’inventario e in ogni caso non oltre centottanta giorni dalla sentenza dichiarativa di fallimento, il curatore predispone un programma di liquidazione da sottoporre all’approvazione del comitato dei creditori.” La violazione del termine di 180 giorni è giusta causa per la revoca del curatore. Il programma è un atto di pianificazione e deve avere un contenuto specifico.

Il curatore, fatto salvo quanto previsto dall’art. 107, può essere autorizzato dal giudice delegato ad affidare ad altri professionisti o società specializzate alcune incombenze relative alla liquidazione dell’attivo. Su richiesta del comitato dei creditori il programma può essere modificato, mentre il curatore può presentare, un supplemento del piano di liquidazione. Prima della approvazione del programma, il curatore può liquidare beni, su autorizzazione del giudice delegato e sentito il comitato dei creditori se già nominato, solo se dal ritardo può derivare pregiudizio all’interesse dei creditori. Il curatore, inoltre, su autorizzazione del comitato dei creditori, può non acquisire all’attivo o rinunciare a liquidare uno o più beni, se la liquidazione non risulta conveniente. In questo caso, il curatore lo comunica ai creditori che, in deroga all’art. 51, possono intraprendere azioni esecutive o cautelari sui beni rimessi nella disponibilità del debitore. Il programma, una volta approvato è comunicato al giudice delegato, che autorizza l’esecuzione degli atti conformi allo stesso. La violazione senza giustificato motivo dei termini previsti dal programma di liquidazione è giusta causa di revoca del curatore, come in presenza di somme disponibili per la ripartizione, il mancato rispetto dell’obbligo previsto dall’articolo 110 primo comma.

Il d.l n. 83/2015 ha inciso anche sulle modalità in cui devono eseguirsi le vendite previste dall’art 107 L.F. stabilendo: “Le vendite e gli atti di liquidazione possono prevedere che il versamento del prezzo abbia luogo ratealmente (…). In ogni caso, al fine di assicurare la massima informazione e partecipazione degli interessati, il curatore effettua la pubblicità’ prevista dall’articolo 490, primo comma, del codice di procedura civile, almeno trenta giorni prima dell’inizio della procedura competitiva.”

Eseguite le vendite il giudice delegato provvede alla distribuzione della somma ricavata, secondo le disposizioni del capo VII relativo alla ripartizione dell’attivo (art. 109).

Procedimento di ripartizione

L’art. 110 sancisce l’obbligo per il curatore di predisporre (ogni 4 mesi) un prospetto delle somme disponibili e un progetto di riparto delle stesse, avverso il quale è possibile proporre reclamo, nelle forme previste dall’art. 26, entro il termine perentorio di 15 giorni dalla comunicazione dell’avvenuto deposito. Il d.l. n. 59/2016, che ha disposto la modifica dei commi 1 e 4 dell’art 110 ha previsto, tra l’altro che, in presenza di giudizi di cui all’articolo 98 in corso, il curatore indica nel progetto di ripartizione, per ogni creditore, le somme immediatamente e/o quelle ripartibili solo previo rilascio, in favore della procedura, di una fideiussione autonoma e irrevocabile, in grado di garantire la restituzione delle somme ripartite in eccesso, anche in forza di provvedimenti provvisoriamente esecutivi resi nei giudizi di cui all’articolo 98, oltre agli interessi.

Esecutività del progetto di riparto

Decorso il termine per il reclamo, il giudice delegato, su richiesta del curatore, dichiara esecutivo il progetto di ripartizione, per cui si procede alla liquidazione delle somme ricavate, secondo l’ordine di cui all’art. 111 L.F. (crediti prededucibili, crediti ammessi con prelazione, crediti chirografari).

Compiuta la liquidazione dell’attivo e presentato il rendiconto del curatore a norma dell’art. 116, il giudice delegato ordina quindi il riparto finale (art. 117 L.F.), nel quale vengono distribuiti anche gli accantonamenti precedenti.

La chiusura del fallimento

La procedura di fallimento si chiude, secondo quanto disposto dal novellato art. 118, 1° comma, del r.d. n. 267/1942: “Se nel termine stabilito nella sentenza dichiarativa di fallimento non sono state proposte domande di ammissione al passivo; quando, anche prima che sia compiuta la ripartizione finale dell’attivo, le ripartizioni ai creditori raggiungono l’intero ammontare dei crediti ammessi, o questi sono in altro modo estinti e sono pagati tutti i debiti e le spese da soddisfare in prededuzione; quando è compiuta la ripartizione finale dell’attivo; quando nel corso della procedura si accerta che la sua prosecuzione non consente di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di procedura”.

Il successivo comma 2, stabilisce che in caso di fallimento di società, il curatore ne chiede la cancellazione dal registro delle imprese e la chiusura del fallimento determina anche la chiusura della procedura estesa ai soci, salvo che nei confronti di qualcuno degli stessi non sia stata aperta una procedura di fallimento come imprenditore individuale.

Il d.l. 83/2015, modificando l’art 118 L.F., è intervenuto sulla tempistica, stabilendo che la disciplina della chiusura del fallimento, quando è compiuta la ripartizione finale dell’attivo, non può essere ostacolata dalla pendenza di controversie in cui il fallimento in questione, nella persona del curatore, è coinvolto.

Con il decreto di chiusura del fallimento cessano gli effetti dello stesso sul patrimonio del fallito e le conseguenti incapacità personali e decadono gli organi preposti alla procedura (art. 120 L.F.).

Legge fallimentare: vecchie e nuove riforme 

Come detto, la disciplina del fallimento è stata oggetto di numerose riforme nel corso degli anni.

Tra le principali modifiche legislative vale la pena segnalare:

  • – la riforma del diritto fallimentare avvenuta con d.lgs. n. 5/2006;
  • – le novità apportate dal d.l. n. 83/2012 (convertito con legge n. 134/2012) relative al nuovo istituto del preconcordato;
  • – quelle del decreto n. 179/2012 (convertito con legge n. 221/2012);
  • – le modifiche della legge di stabilità n. 228/2012;
  • – la riforma dell’art. 161 nell’ambito del concordato preventivo, da parte del d.l. n. 69/2013 (c.d. decreto del fare), convertito con modificazioni dalla l. n. 98/2013;
  • – le innovazioni adel d.lgs. 16/11/2015 n. 180;
  • – quelle del d.l. 3/05/2016 n. 59;
  • – e quelle apportate dalla legge n. 232 del 11/12/2016, in vigore dal 01 gennaio 2017, che offre la possibilità di proporre il pagamento parziale o rateale di crediti tributari, contributivi e Iva, in sede di concordato preventivo o di accordo di ristrutturazione dei debiti.

Dal fallimento alla “liquidazione giudiziale”

Si è accennato sopra in più occasioni che il 10 gennaio 2019 è stato approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, che a breve determinerà una completa riscrittura della disciplina del fallimento.

Per la sua entrata in vigore occorre, tuttavia, attendere diversi mesi.

Tra le novità si segnala sin da subito, in ogni caso, la sostituzione del termine “fallimento” con “liquidazione giudiziale”.

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