Cronaca

Elena Del Pozzo, criminologo: “Madre malata di mente? Non escluso”

All'Adnkronos Mastronardi: "Assenza precedenti ricoveri può lasciar pensare che è capace di intendere e volere"

Martina Patti soffre di una malattia mentale? Prova a rispondere lo psichiatra e criminologo Vincenzo Mastronardi che all’Adnkronos spiega a proposito della mamma 23enne, accusata di aver ucciso la figlioletta Elena di 5 anni, che “ogni caso è a sé stante, ma se non vi sono stati precedenti ricoveri, precedenti necessità psichiatriche e quindi precedenti campanelli di allarme tutto potrebbe lasciar pensare che è perfettamente capace di intendere e volere. Tuttavia, scientificamente, la preordinazione e la programmazione non esclude la malattia di mente”. Va stabilito se si è trattato di una “lucida follia o di una lucida capacità di intendere e volere”.

Omicidio Elena Del Pozzo, Martina Patti soffre di una malattia mentale?

“Il paranoico, lo schizofrenico amplifica ciò che gli viene fatto e si organizza in funzione di quella sua malattia condizionante – osserva -. Non possiamo sbilanciarci, ma il dato certo è non vi sono state avvisaglie psichiatriche prima. Il fatto che abbia organizzato una messinscena non dice, in sé, che non abbia una patologia”.

Mastronardi è autore, insieme a Matteo Villanova, del libro ‘Madri che uccidono. Le voci agghiaccianti e disperate di oltre trecento donne che hanno assassinato i loro figli’ (Newton Compton) e spiega: “Ho esaminato per ricerca o per motivi peritali circa 18 madri e molte avevano piena capacità di intendere e volere, di decidere se lasciarsi andare all’istinto omicidiario o se resistere a quell’istinto. Se c’è una malattia questa volontà è compromessa. I canali sono due: infermità di mente oppure la follia mostruosa della normalità razionale, un disturbo del comportamento, non già pazza ma cattiva“. Nel caso di Catania bisognerà stabilire se si sia trattato di “lucida follia o di una lucida capacità di intendere e volere”, osserva il criminologo che conclude: “Sono drammi umani, qualunque sia la motivazione a monte”.

La sindrome di Medea

La svolta per l’omicidio della piccola Elena Del Pozzo è arrivata quando la madre, la 23enne Martina Patti, ha confessato di aver ucciso sua figlia di 5 anni dopo aver inscenato un rapimento. In questi giorni in molti stanno parlando anche della sindrome di Medea. Ma che cos’è? E come riconoscere la patologia? Il termine è stato utilizzato per la prima volta, dallo psicologo Jacobs a fine degli anni ‘ 80 per indicare il comportamento di una madre che mirava a distruggere il rapporto fra padre e figli, specialmente dopo una separazione conflittuale.

La sindrome di Medea nasce da una delle tragedie greche di Euripide, una delle tragedie più disperate, eroiche e cariche di emotività dell’antica Grecia. Medea è figlia della maga Circe, dalla quale eredita i suoi poteri magici. È profondamente innamorata di Giasone a tal punto da aiutarlo ad impossessarsi del vello d’oro tradendo la sua famiglia. Arriva, infatti, ad uccidere il proprio fratello affinché Medea stessa, il suo amato e gli Argonauti possano fuggire senza essere ostacolati da suo padre, poiché impegnato a raccogliere i resti del figlio. Medea in seguito sposa Giasone e si trasferisce a vivere con lui a Corinto. Dopo alcuni anni, tuttavia, Giasone si innamora di un’altra donna molto più giovane di Medea.

Ripudia, quindi, Medea per sposare Glauce, figlia del re di Corinto, Creonte, in modo da avere diritto di successione al trono. Medea, distrutta dal dolore, prepara la sua vendetta: fingendosi rassegnata alla perdita del suo amore, manda un vestito avvelenato alla futura sposa come dono di nozze, la quale una volta indossato muore tra atroci dolori. Accecata dall’odio, Medea uccide anche i propri figli, in quanto discendenza di Giasone, eliminando ogni legame con l’ex amato. Per Medea l’unico modo per affrontare un simile dolore e superare l’umiliazione di essere stata ripudiata è proprio quello di uccidere i propri figli per vendicarsi dell’ex partner.

Cos’è la sindrome o il complesso di Medea?

Il “Complesso di Medea” viene utilizzato dallo psicologo Jacobs (1988) per indicare il comportamento materno finalizzato alla distruzione del rapporto tra padre e figli dopo le separazioni conflittuali. Si tratta di una metafora della Tragedia di Medea dove l’uccisione dei figli diventa simbolica, cioè finalizzata ad uccidere non il figlio stesso ma il rapporto di quest’ultimo con il padre.

Allargando la prospettiva, il complesso di Medea rimanda al concetto di “Alienazione Parentale” (PAS – Parental Alienation Syndrome), che può riguardare entrambi i genitori. Con il termine alienazione parentale o genitoriale si intendono i comportamenti di un genitore (che di solito possiede la custodia dei figli) volti ad allontanare materialmente ed emotivamente il figlio dall’altro genitore e che quindi abbia una condotta alienante finalizzata all’emarginazione e alla neutralizzazione dell’altro.

Quando avviene?

Il complesso di Medea si riferisce a quello che a volte succede dopo una separazione o un divorzio nel momento in cui un genitore (o entrambi) mette in atto comportamenti finalizzati a distruggere la relazione tra l’altro genitore e i figli, come diretta conseguenza della fine del rapporto tra marito e moglie. La natura della motivazione alla base dell’alienazione genitoriale risiede in una mancata e cattiva elaborazione della separazione da parte di uno dei due ex coniugi o, peggio ancora, di entrambi.

L’uccisione del legame tra genitore e figlio avviene nel concreto quando uno dei due genitori parla male dell’altro davanti al figlio o ai figli, mettendo in atto una vera e propria manipolazione.
Così come è stata per Medea, si tratta di una vendetta che però non porta alcun beneficio a nessuno membro della famiglia. La violenza in questo caso non è fisica ma si trova su un piano più emotivo e psicologico. L’alienazione parentale comporta una sofferenza che non riguarda unicamente i genitori ma si estende ai figli e alle famiglie d’origine.

Le madri

Secondo Gardner (1988), psichiatra infantile e forense, le madri sono genitori “alienanti” molto più frequentemente di quanto lo siano i padri, dal momento che generalmente sono la figura a cui viene affidato il figlio. Rispetto al padre, le madri passano molto più tempo insieme ai figli e proprio questo tempo dà loro un maggiore potere, e una sorta di onnipotenza, nella relazione con i figli per cercare di “annientare” l’altro. Una madre che soffre della sindrome di Medea rischia di cancellarsi non solo come madre ma anche come donna.

I padri

Il complesso di Medea, in realtà, si verifica non solo nelle madri, ma anche nei padri. Secondo Gardner, negli USA la proporzione tra padri e madri vittime della PAS sta raggiungendo il 50%. Il motivo per cui anche i padri possono mettere in atto forme di alienazione genitoriale rivolte alla madre potrebbe essere sempre legato alla questione “tempo” di cui si parlava prima. Il fatto che spesso sono le madri a passare più tempo con i figli potrebbe portare i padri a sentirsi “meno padri” e meno utili nei confronti delle madri e, quindi, a compiere comportamenti rivolti a minare il rapporto delle madri con i figli.

I figli

I figli diventano le vittime dell’alienazione genitoriale in quanto il genitore alienante spinge il figlio a prendere le parti di uno dei due genitori: il bambino o ragazzo si sente costretto, diviso e combattuto all’idea di far soffrire uno dei due. Ha inizio una sorta di gara di lealtà (Byrne, 1989) in cui è il figlio a dover decidere chi tra madre e padre sia il vincitore.

La violenza verso i figli, in questo caso, non è fisica (come lo è stata per Medea) ma si tratta di un abuso emotivo: i genitori trattano i figli come confidenti, facendoli salire al loro livello (genitoriale) e costringendoli ad un’innaturale scelta, con la scopo di escludere l’ex coniuge dalla loro vita. Il figlio vittima di PAS è portato, quindi, ad avere un ruolo attivo nel conflitto genitoriale in quanto può arrivare ad esprimere consapevolmente il desiderio di interrompere i rapporti con il genitore alienato.
Nei bambini, come conseguenza dell’alienazione genitoriale, possono verificarsi problematiche relazionali ed affettive, fino ad arrivare allo sviluppo di disturbi o di una psicopatologia (come la depressione o un disturbo post traumatico) .

Come riconoscere la sindrome e gli interventi

Con alienazione genitoriale si intendono, quindi, tutte quelle situazioni in cui vi è un radicale allontanamento del figlio da un genitore e un’interruzione dei rapporti tra genitore e figlio.
Facendo una lettura più complessa e olistica del sistema relazionale e familiare, ciascun membro della famiglia (genitore alienante, genitore alienato e figlio) contribuisce alla dinamica della separazione agendo e reagendo ad essa in modo più o meno funzionale a seconda del proprio vissuto individuale, familiare e in base ai propri bisogni.

In caso di alienazione genitoriale, o più in generale in tutti i casi in cui sia presente un conflitto genitoriale importante, può essere utile rivolgersi ad un terapeuta per una terapia familiare, per individuare le risorse di ciascuno a cui tutti i componenti della famiglia possono attingere per affrontare in modo funzionale la difficile fase della separazione.

In criminologia

E ancora: “In criminologia si dice che il raptus non esiste. Perché le cause determinanti delle azioni sono il vissuto, le esperienze, la condizione psicologica e il carattere. Parlare di raptus, invece, in qualche modo ci deresponsabilizza rispetto all’evento”. Infine: “Il quadro psicologico comunque emergerà con chiarezza durante il processo. Una cosa che ci tengo a dire è che adesso è facile smuovere giudizio e indignazione, mentre è più difficile cercare di capire tutta la sofferenza che c’era prima e fare qualcosa per prevenire queste situazioni. Occorre sicuramente fare molta sensibilizzazione sull’argomento, perché riuscire a prevenire tutte le situazioni è impossibile, ma sensibilizzare è il primo passo”.

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