Almanacco

Il 29 giugno del 1925 nasce Giorgio Napolitano, è stato il primo Presidente della Repubblica italiana ad aver avuto due mandati

Politico italiano, presidente emerito della Repubblica Italiana. È stato l'11º presidente della Repubblica Italiana dal 15 maggio 2006 al 14 gennaio 2015

Giorgio Napolitano è un politico italiano, presidente emerito della Repubblica Italiana. È stato l’11º presidente della Repubblica Italiana dal 15 maggio 2006 al 14 gennaio 2015. In precedenza era stato presidente della Camera nell’XI Legislatura (subentrando nel 1992 a Oscar Luigi Scalfaro, salito al Quirinale) e ministro dell’Interno nel governo Prodi I, nonché deputato pressoché stabilmente dal 1953 al 1996, europarlamentare dal 1989 al 1992 e poi di nuovo dal 1999 al 2004, e senatore a vita dal 2005 (nominato da Carlo Azeglio Ciampi) fino alla sua elezione alla prima carica della Repubblica.

È stato l’unico Capo dello Stato a essere stato membro del Partito Comunista Italiano, il terzo napoletano dopo De Nicola e Leone. Il 20 aprile 2013 venne rieletto alla presidenza, divenendo il primo presidente della Repubblica italiano a essere chiamato per un secondo mandato, oltre che il più anziano al momento dell’elezione nella storia repubblicana. È stato anche il più anziano capo di Stato d’Europa nonché terzo al mondo, preceduto solamente dal presidente della Repubblica dello Zimbabwe Robert Mugabe e da re Abd Allah dell’Arabia Saudita. In quanto presidente emerito della Repubblica, gli compete di diritto la carica di senatore a vita.

Giorgio Napolitano, il senatore dei record

Nasce a Napoli il 29 giugno del 1925, da Giovanni (1883-1955), avvocato liberale, poeta e saggista, originario di Gallo di Comiziano, e da Carolina Bobbio, figlia di professionisti napoletani di origine piemontese. Dal 1938 al 1941 studia al Liceo Classico Umberto I di Napoli, dove frequenta quarta e quinta ginnasio per poi saltare alla seconda liceo (erano gli anni della guerra). Nel dicembre successivo si trasferisce con la famiglia a Padova, e lì si diploma presso il liceo Tito Livio. Nel 1942 si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli.


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Durante quegli anni entra a far parte del GUF di Napoli, collaborando con il settimanale “IX Maggio” dove tiene una rubrica di critica teatrale. In questo periodo si forma tuttavia il gruppo di amici storico di Napolitano che, seppur militando ufficialmente nel fascismo, guarda alle prospettive dell’antifascismo.

Il giovane Napolitano, appassionato di letteratura e teatro (un interesse coltivato tra i banchi del liceo classico Umberto I di Napoli, con amici come Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Raffaele La Capria, Luigi Compagnone), debutta anche come attore in un paio di piccole parti nella compagnia del GUF al Teatro degli Illusi presso Palazzo Nobili.

Gli inizi

Nel 1944 entra in contatto con il gruppo di comunisti napoletani come Mario Palermo, e italo-tunisini come Maurizio Valenzi, che prepararono l’arrivo a Napoli di Palmiro Togliatti. L’anno dopo Napolitano aderisce al Partito Comunista Italiano, di cui è segretario federale a Napoli e Caserta. Due anni dopo, nel 1947, si laurea in giurisprudenza con una tesi di economia politica dal titolo: Il mancato sviluppo industriale del Mezzogiorno dopo l’Unità e la legge speciale per Napoli del 1904.


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Eletto deputato nel 1953 – e successivamente sempre riconfermato (tranne che nella IV legislatura) nella circoscrizione di Napoli, fino al 1996 –, diviene responsabile della commissione meridionale del Comitato centrale del PCI, di cui era diventato membro a partire dall’VIII Congresso (1956), grazie all’appoggio che Togliatti aveva dato in quel periodo, a lui e ad altri giovani, nell’ottica della creazione di una nuova e più eterogenea dirigenza centrale.

Condanna ai controrivoluzionari

In quell’anno, tra l’ottobre e il novembre, si consuma da parte dell’Unione Sovietica la repressione dei moti ungheresi, che la dirigenza del PCI condannerà come controrivoluzionari (l’Unità arriva persino a definire gli operai insorti “teppisti” e “spregevoli provocatori”). Nel momento stesso degli eventi, anche Napolitano elogia l’intervento sovietico dichiarando che ciò: “ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo“.

In effetti, rispetto a coloro che, in quel periodo, affermano che quella d’Ungheria è da considerare una legittima rivoluzione e che nel comunismo si devono sviluppare le prospettive di un’apertura democratica, il travaglio di Napolitano rimane – come ammesso poi nella sua autobiografia politica Dal PCI al socialismo europeo – a livello di “grave tormento autocritico” riguardo a quella posizione. Successivamente illustra il proprio percorso politico – che seguiva la linea di Giorgio Amendola, il quale avrebbe contribuito alla prima evoluzione del partito, di cui Napolitano si considererà sempre un allievo –, dichiarando che “la mia storia” non è “rimasta eguale al punto di partenza, ma” è “passata attraverso decisive evoluzioni della realtà internazionale e nazionale e attraverso personali, profonde, dichiarate revisioni”.

Gli incarichi nel partito

Tra il 1960 e il 1962 è responsabile della sezione lavoro di massa. Successivamente, dal 1963 al 1966 è segretario della federazione comunista di Napoli. Nel confronto interno seguito alla morte di Palmiro Togliatti nel 1964, Napolitano è uno degli esponenti moderati di maggior peso, parte della corrente del partito più attenta al Partito Socialista Italiano (che, rompendo il cosiddetto “fronte popolare”, entrerà al governo con la Democrazia Cristiana) in contrapposizione a quella più legata al clima di ribellione precedente il Sessantotto. Dopo essere entrato, a partire dal X Congresso, nella direzione nazionale del partito, dal 1966 al 1969 diviene coordinatore dell’ufficio di segreteria e dell’ufficio politico del PCI. Nel 1966 riveste l’incarico non ufficiale di vicesegretario di fatto del partito con Luigi Longo, finché due anni più tardi l’incarico sarà affidato a Enrico Berlinguer.


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Tra il 1969 e il 1975, si occupa principalmente dei problemi della vita culturale del Paese, come responsabile della politica culturale dei comunisti italiani; il suo libro Intervista sul PCI con Eric Hobsbawm ha un certo successo, con traduzioni in oltre dieci paesi. Nel periodo della “solidarietà nazionale” (1976-79) è portavoce del partito nei rapporti con il governo Andreotti, sui temi dell’economia e del sindacato.

Negli anni Settanta svolge una grande attività all’estero, tenendo conferenze negli istituti di politica internazionale in Gran Bretagna, in Germania – dove contribuisce al confronto con la socialdemocrazia europea, in special modo con l’Ostpolitik di Willy Brandt – e, cosa all’epoca inusuale per un politico italiano, nelle università americane: nel 1978 fu infatti il primo dirigente del Partito Comunista Italiano a ricevere un visto per recarsi negli Stati Uniti, dove terrà conferenze e importanti incontri ad Aspen, Colorado, e all’Università di Harvard; l’invito ufficiale, nella sua veste politica, venne soltanto una decina di anni dopo, anche grazie all’interessamento di Giulio Andreotti, e diede luogo anche a un nuovo ciclo di conferenze presso le più prestigiose università d’oltreoceano (Harvard, Yale, Chicago, Berkeley, Johns Hopkins-SAIS e CSIS di Washington). Dal 1976 al 1979 è inoltre responsabile della politica economica del partito.

La transizione verso la socialdemocrazia europea

Napolitano è stato uno degli esponenti storici della corrente della “destra” del PCI, nata verso la fine degli anni 1960 e ispirata ai valori del socialismo democratico, nel solco della tradizione segnata da Giorgio Amendola. Negli anni di maggior scontro interno la corrente di Napolitano viene detta dagli avversari “migliorista”, nome coniato anche con una certa accezione dispregiativa facendo riferimento a un’azione politica che servisse a migliorare le condizioni di vita della classe lavoratrice senza però rivoluzionare strutturalmente il capitalismo.


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Giorgio Napolitano ed Enrico Berlinguer.

Da Amendola eredita l’orientamento riformista di leader dell’ala moderata del PCI, proseguendo nella battaglia per far crescere l’europeismo del PCI fino a candidare al Parlamento europeo Altiero Spinelli; riuscì tuttavia a distanziarsi ulteriormente dall’Unione Sovietica condannando l’invasione dell’Afghanistan (giustificata, invece, da Amendola). La sua ferma critica all’URSS fu da allora accettata dalla maggioranza del partito.

L’altro personaggio politico con cui nel PCI Napolitano si confronta è Enrico Berlinguer, che considera parte del cammino verso il «superamento delle contraddizioni di fondo tra il PCI nella sua evoluzione e il comunismo come ideologia e come sistema». Al suo fianco nell’esperienza della “solidarietà nazionale”, in seguito ne critica le scelte di arroccamento del partito sulle sue posizioni. Napolitano divenne uno dei maggiori esponenti dell’opposizione interna a Berlinguer (per esempio intervenne contro il segretario nella Direzione del 5 febbraio 1981 dedicata ai rapporti con il Partito Socialista Italiano) e lo criticò pubblicamente sull’Unità per il modo in cui aveva posto la «questione morale e l’orgogliosa riaffermazione della nostra diversità». In un famoso articolo pubblicato dall’Unità in quell’estate, Napolitano mette in guardia Berlinguer dai pericoli del settarismo e dell’isolamento parlamentare verso cui, dice, rischia di trascinare il PCI al solo scopo di battere i «familiari sentieri» della lotta di classe.

Convergenza col PSI

Napolitano inoltre si adopera per tenere aperta la possibilità di un confronto e di una possibile convergenza con il PSI. Cerca di mantenere vivi i contatti con il socialismo europeo e italiano, anche negli anni del duro scontro sulla scena politica nazionale tra comunisti e socialisti (e tra i rispettivi leader, Enrico Berlinguer e Bettino Craxi), che raggiunge il culmine nel 1985 con la differente posizione dei due partiti circa il referendum abrogativo sulla cosiddetta “scala mobile”.


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Nello stesso anno affermava che il riformismo europeo è «il punto di approdo del PCI». Dal 1986 dirige nel partito la commissione per la politica estera e le relazioni internazionali. In quegli anni all’interno del partito prevale, in politica estera, la linea di Napolitano di “piena e leale” solidarietà agli Stati Uniti e alla NATO; Henry Kissinger dichiarò in seguito come Napolitano fosse il suo comunista preferito (“my favourite communist”). Dal 1981 al 1986 (durante l’VIII e IX legislatura) è presidente del gruppo dei deputati del PCI alla Camera dei deputati e, dal 1989 al 1992, parlamentare europeo.

Alla morte di Enrico Berlinguer, Napolitano è tra i possibili successori alla Segreteria del Partito; gli viene tuttavia preferito Alessandro Natta. Nel luglio del 1989 è Ministro degli Esteri nel governo ombra del PCI, da cui si dimette all’indomani del congresso di Rimini, in cui si dichiara favorevole alla trasformazione in Partito Democratico della Sinistra.

In un’intervista concessa il 6 marzo del 1992 ribadirà: «ci caratterizza l’antica convinzione che il PCI abbia tardato a trasformarsi in un partito socialista democratico di stampo europeo». Nel frattempo nel 1991, in piena guerra del Golfo, fa uno storico viaggio in Israele, riportando le posizioni del Partito Comunista Italiano verso una maggiore attenzione alle istanze della comunità ebraica.

Da presidente della Camera a senatore a vita

Nel 1992 viene eletto presidente della Camera dei Deputati (subentrando a Oscar Luigi Scalfaro, divenuto Presidente della Repubblica Italiana). Si trattò della “legislatura di Tangentopoli” e la sua presidenza divenne uno dei fronti del rapporto tra magistratura e politica; due episodi sono significativi del modo in cui Napolitano guadagnò alle istituzioni il conforto dell’opinione pubblica, che in quel periodo era particolarmente incline alla sfiducia nei confronti delle pubbliche autorità.


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Il 2 febbraio 1993 all’ingresso posteriore di palazzo Montecitorio si presentò un ufficiale della Guardia di Finanza con un ordine di esibizione di atti: esso si riferiva agli originali dei bilanci dei partiti politici (peraltro pubblicati anche in Gazzetta Ufficiale) utili al magistrato procedente, Gherardo Colombo della Procura di Milano, per verificare se talune contribuzioni a politici inquisiti fossero state dichiarate a bilancio, secondo le prescrizioni della legge sul finanziamento pubblico ai partiti. Il Segretario generale della Camera, su istruzioni del presidente, oppose all’ufficiale l’immunità di sede, cioè la garanzia delle Camere per cui la forza pubblica non vi può accedere se non su autorizzazione del loro presidente. Nei giorni successivi tutti i partiti politici e tutti i principali organi di stampa sostennero la scelta del presidente Napolitano.

Il secondo episodio ebbe luogo subito dopo la seduta del 29 aprile 1993, in cui alcune delle richieste di autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi furono respinte dalla Camera a voto segreto. Il presidente Napolitano convocò il 6 maggio seguente la Giunta per il Regolamento e dispose che le deliberazioni della Camera sulle autorizzazioni a procedere fossero per l’avvenire votate in maniera palese (mantenendo il ricorso al voto segreto solo per la sottoposizione all’arresto, alla perquisizione o ad altra privazione della libertà personale). Innovando così la prassi parlamentare ultrasecolare, la Presidenza della Camera – e quella del Senato, retta da Giovanni Spadolini, che adottò analoga deliberazione in pari data – si evitò per il prosieguo che le proposte di concessione dell’autorizzazione richiesta dalla magistratura fossero respinte nel segreto dell’urna, da quello che era stato ribattezzato il “Parlamento degli inquisiti”.

Tangentopoli

Nella gestione del lato politico della vicenda di Tangentopoli – pur avendo pronunciato un deciso intervento in memoria del suicida deputato Moroni – si consumò la sua rottura con il leader socialista Craxi: scelse di non dare alcun seguito alle doglianze di questi contro il presidente della Giunta delle Autorizzazioni della Camera, l’onorevole Gaetano Vairo, guadagnandone una reazione stizzita a tutto campo. Nel processo Cusani, il 17 dicembre 1993, Craxi affermò:

“come credere che il presidente della Camera, onorevole Giorgio Napolitano, che è stato per molti anni ministro degli Esteri del PCI e aveva rapporti con tutta la nomenklatura comunista dell’Est a partire da quella sovietica, non si fosse mai accorto del grande traffico che avveniva sotto di lui, tra i vari rappresentanti e amministratori del PCI e i paesi dell’Est? Non se n’è mai accorto?”; secondo la sentenza sulle tangenti per la metropolitana di Milano, Luigi Majno Carnevale si occupava di ritirare la quota spettante al partito comunista e di girarle, in particolare, alla cosiddetta “corrente migliorista” che “a livello nazionale […] fa capo a Giorgio Napolitano“.


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Barack Obama e Giorgio Napolitano.

Nel 1994, tornato sui banchi parlamentari dopo esser stato presidente della Camera, fu incaricato dal PDS di pronunciare la dichiarazione di voto sulla fiducia del governo Berlusconi I. Al termine del discorso, Silvio Berlusconi si congratulò con lui per il suo auspicio di «una linea di confronto non distruttivo tra maggioranza e opposizione». Si tratta di un rapporto mantenutosi nei ranghi per tre lustri, fino alla crisi istituzionale sul caso Englaro nel febbraio del 2009.

Ministro di Prodi

Successivamente, Romano Prodi lo sceglie come Ministro dell‘Interno del suo governo nel 1996. Come primo ex comunista a occupare la massima carica del Viminale, propone con Livia Turco quella che diverrà nel luglio 1998 la legge Turco-Napolitano, che istituisce i centri di permanenza temporanea per gli immigrati clandestini. Mentre ricopre tale incarico, è molto criticato per non aver attuato una tempestiva e adeguata sorveglianza su Licio Gelli, fuggito all’estero (dopo essere evaso dal carcere già nel 1983) il 28 aprile 1998, il giorno stesso della divulgazione della sentenza definitiva di condanna per depistaggio e strage da parte della Cassazione; per questi fatti il direttore di MicroMega, Paolo Flores d’Arcais, ne chiede le dimissioni.


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Parte dell’opposizione presenterà per questo una mozione di sfiducia contro di lui e l’allora ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick che verrà respinta con 46 sì e 310 no il 29 maggio 1998.

Dopo la caduta dell’esecutivo guidato da Prodi, è nuovamente europarlamentare dal 1999 al 2004 tra le file dei Democratici di Sinistra, ricoprendo inoltre la carica di presidente della Commissione Affari Costituzionali, una delle più influenti del Parlamento europeo. Il 23 settembre 2005 è nominato, assieme a Sergio Pininfarina, senatore a vita dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.

Presidenza della Repubblica: primo mandato

Il 10 maggio 2006, alla quarta votazione, è eletto undicesimo presidente della Repubblica Italiana, con 543 voti su 990 votanti dei 1009 aventi diritto. Giura entrando ufficialmente in carica il giorno 15 maggio (dopo le dimissioni anticipate di Ciampi).

È il primo esponente proveniente dal PCI a divenire presidente della Repubblica, nonché il primo proveniente da un gruppo parlamentare (in questo caso, L’Ulivo) dopo la caduta della cosiddetta Prima Repubblica. Tra i suoi primi atti, la concessione della grazia a Ovidio Bompressi, in continuità con le determinazioni assunte dal predecessore Carlo Azeglio Ciampi.


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Giorgio Napolitano e Papa Benedetto XVI.

Il 9 luglio successivo è stato presente, insieme al ministro Giovanna Melandri, all’Olympiastadion di Berlino durante la partita finale del campionato mondiale di calcio, dove l’Italia ha conquistato il suo quarto titolo mondiale: prima di allora, l’onore era spettato solo a Sandro Pertini durante la finale del 1982.

Caso Woodcock

Nella veste di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Napolitano ha assunto una serie di iniziative verso l’ordine giudiziario: nella primavera del 2007 ha chiesto al CSM stesso notizie relative al fascicolo personale di Henry John Woodcock, il pubblico ministero che indagava su Vittorio Emanuele di Savoia, mentre nell’autunno del 2008 ha più volte auspicato la risoluzione della “guerra tra le Procure” di Salerno e Catanzaro circa le indagini attinenti all’avocazione delle inchieste del PM Luigi de Magistris.


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Sempre nel 2008, nel pieno delle polemiche per le forti contestazioni, da parte di esponenti dei centri sociali e della sinistra, alla presenza di Israele alla Fiera Internazionale del Libro di Torino (nazione invitata per il sessantennale della sua creazione ma, al contrario del Salon du Livre di Parigi che aveva fatto una scelta analoga, senza dare spazio anche agli scrittori palestinesi), l’annunciata visita di Napolitano alla manifestazione viene criticata da Ṭāriq Ramaḍān: secondo lo scrittore svizzero, la sua presenza avrebbe dato una valenza politica all’invito dello Stato del Vicino Oriente, e lo stesso Napolitano avrebbe equiparato le critiche a Israele all’antisemitismo; in risposta a ciò, è stata emessa una nota del Quirinale.

Lauree ad honoris causa

Il 14 novembre 2009 gli è stata conferita una laurea honoris causa in politiche e istituzioni dell’Europa dall’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Il 6 maggio 2010 Napolitano ha poi dato avvio alle celebrazioni per il 150º anniversario dell’Unità d’Italia. Il 20 settembre successivo ha ricevuto in Campidoglio la prima cittadinanza onoraria di Roma Capitale.

Il 7 gennaio 2011, come primo atto del nuovo anno nonché nell’ambito delle celebrazioni per il centocinquantennale dell’unità nazionale, si è recato in visita prima a Reggio nell’Emilia per commemorare l’adozione del Tricolore avvenuta, proprio il 7 gennaio del 1797, nella città emiliana, poi a Forlì per ricordare la figura del patriota mazziniano Aurelio Saffi. Il 17 marzo 2012 è intervenuto all’incontro, organizzato presso il Quirinale, avente a tema, in quanto relativo momento di chiusura, “Bilancio e significato delle celebrazioni per il 150º anniversario dell’Unità d’Italia“; in tale occasione, tra l’altro, ha consegnato uno speciale riconoscimento, per il contributo storico al Risorgimento e per l’impegno nelle celebrazioni stesse, a dieci città (Bergamo, Firenze, Forlì, Genova, Marsala, Pontelandolfo, Reggio nell’Emilia, Rionero in Vulture, Roma e Torino) in rappresentanza di tutto il Paese.


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Giorgio Napolitano e Carlo Azeglio Ciampi.

Il 29 giugno, in occasione della sua visita ufficiale in Regno Unito, ha ricevuto un dottorato honoris causa in diritto dall’Università di Oxford. Tra i suoi atti informali, Napolitano ha invitato al Quirinale gli “azzurri” della nazionale di calcio reduci dai campionati europei del 2012, elogiandoli per i loro «risultati straordinari» ed esprimendo il suo riconoscimento essendoci stati «molti momenti difficili alle spalle». La scadenza naturale del primo mandato avrebbe dovuto essere il 15 maggio 2013, accorciata al 22 aprile dello stesso anno con il giuramento del secondo mandato.

La gestione delle crisi di governo

Dal 21 febbraio 2007 si trova a dover gestire la prima crisi di governo da quando è salito al Colle, causata dalle dimissioni del premier Romano Prodi, in seguito al voto contrario del Senato alla relazione sulla politica estera del suo esecutivo; dopo tre giorni, rinvia il governo alle Camere per la fiducia. Il 24 gennaio 2008 riceve nuovamente le dimissioni di Prodi, in seguito al mancato voto di fiducia al governo maturato in Senato (in seguito all’abbandono della maggioranza da parte dell’UDEUR di Clemente Mastella e alle defezioni di Dini, Bordon, Rossi e Turigliatto).

Avvia le consultazioni con le forze politiche per la ricomposizione della crisi di governo e, propenso a scongiurare le elezioni anticipate (pure richieste dalla maggioranza delle forze parlamentari), ma consapevole della difficoltà di creare un nuovo esecutivo con maggioranza stabile, il 30 gennaio conferisce al presidente del Senato Franco Marini un mandato esplorativo finalizzato a trovare un consenso tra le forze politiche su una riforma della legge elettorale e su un governo che assuma le decisioni più urgenti; il tentativo fallisce e, il 4 febbraio, Marini rimette il mandato ricevuto. Due giorni dopo, il Capo dello Stato firma il decreto di scioglimento delle Camere, chiudendo a ventidue mesi dal suo insediamento la XV Legislatura, la seconda più breve della storia della Repubblica (dopo l‘XI Legislatura).


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L’8 novembre 2011, giorno in cui il governo Berlusconi IV verifica di non avere più una maggioranza parlamentare alla Camera, e si verificano intensi attacchi speculativi ai titoli di Stato, Napolitano si accorda con Berlusconi perché si addivenga alle dimissioni del suo governo non appena sia concluso l’iter di approvazione delle leggi di bilancio. Il giorno successivo, Napolitano nomina Mario Monti senatore a vita, mossa interpretata dai commentatori e dai mercati finanziari come l’indicazione di un probabile successivo incarico al ruolo di presidente del Consiglio; infatti il 12 novembre, dopo l’approvazione e la promulgazione della manovra di stabilità, Napolitano accoglie le dimissioni di Berlusconi e affida proprio a Monti l’incarico per la formazione di un nuovo esecutivo.

Proprio nella fase di formazione di questo governo, il ruolo del Capo dello Stato è stato rilevato come di primario impulso alla riuscita dell’incarico tanto che, in un editoriale del 2 dicembre 2011, il New York Times attribuisce al presidente Napolitano il soprannome di “Re Giorgio”, con un chiaro riferimento a re Giorgio VI del Regno Unito, per la sua “maestosa” difesa delle istituzioni democratiche italiane anche al di là delle strette prerogative presidenziali e per il ruolo da lui svolto nel passaggio dal governo di Silvio Berlusconi a quello di Mario Monti. Nella fine di dicembre il settimanale l’Espresso ha nominato il 2011 “l’anno di Napolitano” e, di conseguenza, egli stesso “uomo dell’anno”.

Da diverse parti, tuttavia, sono provenute critiche nei confronti del modus operandi del Presidente, accusato di aver eccessivamente esteso i margini operativi del suo mandato e di aver fatto prevalere in maniera forzosa i suoi giudizi di merito sull’ordinaria vita politica del Paese e il dettato costituzionale, creando un precedente rischioso.

Nella fase di formazione del nuovo governo, seguente le elezioni politiche del 2013, il 22 marzo ha affidato a Pier Luigi Bersani un incarico per “verificare l’esistenza di un sostegno parlamentare certo” nella formazione di un esecutivo nel minor tempo possibile.

Seguendo le richieste del presidente, Bersani inizia un lungo giro di consultazioni comprendenti sia le parti sociali che politiche al termine delle quali, il 28 marzo, riferisce al Quirinale l’esito infruttuoso delle stesse. Per tale motivo, a partire dal giorno successivo, Napolitano inizia ulteriori consultazioni con le maggiori forze in Parlamento per accertare personalmente gli sviluppi possibili del quadro politico-istituzionale. Alla fine dà l’incarico di formare un nuovo governo a Enrico Letta.

Secondo mandato

Il 20 aprile 2013, vista la difficile situazione politica nazionale, un ampio schieramento parlamentare chiede a Giorgio Napolitano la disponibilità a essere rieletto come Presidente della Repubblica, che egli concede venendo così riconfermato alla carica, alla sesta votazione, con 738 voti su 997 votanti dei 1007 aventi diritto: Napolitano diviene il primo presidente, nella storia dell’Italia repubblicana, a essere eletto per un secondo mandato.

Per completare l’iter burocratico del caso, nella mattinata del 22 aprile sottoscrive l’atto di dimissioni dal suo primo “settennato”, da lui aperto il 15 maggio 2006; a seguito di ciò, lo stendardo presidenziale sul Palazzo del Quirinale viene temporaneamente ammainato. Alle 17:00 dello stesso giorno presta giuramento quale presidente rieletto, pronunciando il discorso innanzi al Parlamento in seduta comune.

La cerimonia di insediamento è stata più sobria e più breve rispetto alla precedente; per gli spostamenti non è stata utilizzata la Lancia Flaminia presidenziale ma una Thema, e il presidente è stato scortato solo da quattro Carabinieri motociclisti; data la rielezione, non vi è stato alcun passaggio di consegne al Quirinale. Nelle settimane seguenti, in una videointervista concessa a Eugenio Scalfari, dichiara di essere “stato quasi costretto ad accettare la candidatura a una rielezione o a una nuova elezione come presidente della Repubblica, essendo profondamente convinto di dover lasciare”. Aggiunge poi che “abbiamo vissuto un momento terribile. Abbiamo assistito a qualcosa a cui non avevamo assistito […]. Ho detto di sì per senso delle istituzioni. Ho ritenuto che si trattasse di salvaguardare la continuità istituzionale”.


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Il 23 aprile apre le consultazioni di rito volte alla formazione del nuovo governo, e il giorno successivo dà l’incarico a Enrico Letta di formare un suo esecutivo. L’8 giugno 2013 compie la prima visita ufficiale all’estero del suo secondo mandato, recandosi in Vaticano da papa Francesco. L’8 ottobre seguente invia alle Camere il suo primo messaggio presidenziale sulla questione carceraria, invitando il Parlamento a prendere in considerazione indulto e amnistia.

Il 17 febbraio 2014, dopo le dimissioni irrevocabili di Enrico Letta a seguito dell’approvazione da parte della Direzione Nazionale del Partito Democratico di un documento in cui si chiedeva un cambio di esecutivo, Napolitano affida a Matteo Renzi l’incarico di formare un nuovo governo. Il governo giura il 22 febbraio e ottenne la fiducia del Senato e della Camera dei deputati rispettivamente il 24 e il 25 febbraio. Il 14 gennaio 2015 rassegna le dimissioni, preannunciate nell’ultimo messaggio di fine anno per le difficoltà legate all’età.

Senatore a vita

Con le dimissioni da presidente della Repubblica il 14 gennaio 2015, in quanto presidente emerito rientra nuovamente in Senato come senatore di diritto e a vita. Il 19 gennaio successivo si iscrive al gruppo parlamentare Per le AutonomiePSIMAIE. Il 31 gennaio, al quarto scrutinio delle nuove elezioni per il capo dello Stato, ottiene ugualmente 2 voti. Il 1º aprile 2015 è nominato presidente onorario dell’Istituto per gli studi di politica internazionale.


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Il 14 dicembre 2016 vota la fiducia al governo Gentiloni, mentre il 26 novembre 2017 esprime in Senato alcune perplessità sulla nuova legge elettorale, detta “Rosatellum”, votando tuttavia a favore della stessa e alle fiducie che il governo aveva posto.

Il 23 e 24 marzo 2018 svolge le funzioni di presidente provvisorio del Senato della Repubblica in quanto senatore più anziano. In tale veste dirige quindi le votazioni che portano all’elezione della senatrice Maria Elisabetta Alberti Casellati alla seconda carica dello Stato.

Il 24 aprile 2018, a seguito di un malore con forti dolori al petto, viene ricoverato d’urgenza all’Ospedale San Camillo di Roma e sottoposto a un intervento all’aorta. L’intervento è considerato un successo e il 2 maggio l’Ospedale rende noto che il senatore è stato trasferito al reparto di degenza della cardiochirurgia e ha iniziato un programma di riabilitazione cardio-respiratoria, essendo “in ottime condizioni neuro-cognitive e psicologiche“. Il 22 maggio viene ricoverato in una clinica per proseguire il decorso post-operatorio e viene infine dimesso il 7 giugno.

Controversie: Promulgazione di leggi

Durante i suoi mandati da presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano è stato accusato di essere troppo accondiscendente nei confronti di Silvio Berlusconi, nei periodi in cui quest’ultimo ha ricoperto la carica di presidente del Consiglio: in quest’ottica, Napolitano viene attaccato per aver firmato alcune delle leggi approvate dal Parlamento su proposta del governo, giudicate in maniera molto critica da una parte dell’opposizione.


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Nel 2008, in occasione della promulgazione del lodo Alfano, Beppe Grillo ha posto sul suo blog cinque domande critiche a Napolitano, colpevole, secondo lui, di aver firmato e quindi legittimato una legge anticostituzionale, per la quale è stato richiesto il pronunciamento da parte della Corte costituzionale che il 19 ottobre 2009, con la sentenza n° 262, ha effettivamente ritenuto incostituzionale; il 21 maggio dello stesso anno, sul sito web della Presidenza della Repubblica è stato pubblicato un comunicato ufficiale di risposta alle critiche, mosse attraverso il blog.

Sempre a tal proposito, il presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi ha espressamente criticato la scelta di Napolitano di firmare subito e soprattutto di usare come motivazione, in risposta a una domanda specifica di un cittadino, il fatto che “tanto se me le ripresentano uguale a quel punto sono costretto a firmarla”. Il 30 gennaio 2014, lo stesso M5S ha depositato una messa in stato di accusa nei confronti di Napolitano per attentato contro la costituzione, motivando ciò con l’avallo di leggi incostituzionali e rispetto alle vicende sulla trattativa Stato-mafia; l’11 febbraio successivo, il comitato parlamentare chiamato a decidere in merito ha respinto l’istanza poiché ritenuta «manifestamente infondata», votando per la sua archiviazione.

L’allora leader dell’Italia dei Valori, Di Pietro, nel 2009 ha criticato Giorgio Napolitano in occasione della promulgazione del cosiddetto scudo fiscale, per aver firmato la legge senza rinvio alle camere: l’ex magistrato ha definito la firma “un atto di viltà”.

L’anno successivo, ancora il fondatore dell’IdV ha dichiarato di valutare una richiesta di messa in stato di accusa per Napolitano, dopo che qualche settimana prima delle elezioni regionali, a seguito dell’esclusione delle liste del PdL in Lazio e Lombardia, il presidente della Repubblica aveva firmato nottetempo il decreto-legge del governo per la riammissione degli elenchi esclusi.

Quando, nell’aprile del 2010, Napolitano ha promulgato la legge sul legittimo impedimento del capo del governo e dei ministri, i pubblici ministeri di Milano si sono detti pronti a ricorrere alla Consulta per sollevare un’eccezione di incostituzionalità; con la sentenza n° 23/2011, la Corte ha poi ritenuto incostituzionali alcune disposizioni della legge medesima.

Conflitto con la Procura di Palermo

Un altro episodio che diede luogo a critiche dell’operato di Giorgio Napolitano fu quello del conflitto d’attribuzione sollevato dallo stesso Napolitano contro la Procura di Palermo la quale, intercettando l’utenza telefonica di Nicola Mancino (accusato di falsa testimonianza nell’ambito del processo sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”), aveva casualmente registrato delle conversazioni intercorse tra quest’ultimo e l’allora presidente della Repubblica.

Scopo del conflitto d’attribuzione era quello di evitare che le intercettazioni in questione, già giudicate irrilevanti dai p.m. di Palermo, fossero distrutte – come era previsto dall’art. 268 c.p.p. – a seguito di una “udienza stralcio” nella quale gli avvocati delle parti in causa avrebbero potuto ascoltare le conversazioni, con il rischio che ne divulgassero i contenuti alla stampa.


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La vicenda ebbe un enorme risalto mediatico e, per mesi, l’opinione pubblica si divise tra chi appoggiava la scelta di Napolitano (ad esempio Valerio Onida e Eugenio Scalfari) e chi invece, come l’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky e Franco Cordero, la criticò aspramente, quest’ultimo arrivando addirittura ad accusare il presidente della Repubblica di rivendicare dei privilegi da monarca assoluto. Fu per tale motivo che nacque il nomignolo di “Re Giorgio”, con il quale Napolitano fu poi spesso chiamato dalla stampa anche negli anni successivi.

Il conflitto di attribuzione tra Quirinale e Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo (difesa dai costituzionalisti Alessandro Pace e Giovanni Serges e dall’ex membro del C.s.m. Mario Serio) fu risolto dalla Corte costituzionale con la celebre sentenza n. 1/2013 (relatori Gaetano Silvestri e Giuseppe Frigo).

La Consulta, pur riconoscendo che il principio d’inviolabilità della riservatezza delle comunicazioni del presidente della Repubblica possa venir meno quando essa comporterebbe “il sacrificio di interessi riferibili a principi costituzionali supremi”, osservò come «il divieto assoluto di ricorso al controllo delle comunicazioni telefoniche, enunciato in rapporto ai reati presidenziali» (legge 219/1989), “debba estendersi, nel silenzio della legge, ad altre fattispecie di reato che possano a diverso titolo coinvolgere il Presidente” e che “a maggior ragione dovrebbe ritenersi inammissibile l’utilizzazione di sue conversazioni intercettate occasionalmente nel corso di indagini concernenti reati addebitabili a terzi“; il giudice dovrebbe disporre la distruzione della documentazione delle intercettazioni non già ex artt. 268 e 269 c.p.p., cioè nell’ambito di un’udienza camerale in cui le parti, in contraddittorio fra loro, discutono della rilevanza processuale delle comunicazioni intercettate, bensì ex art. 271, comma 3, disposizione che, nello stabilire, per il giudice, il dovere di disporre la distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni di cui è vietata l’utilizzazione, non gli impone di fissare simile udienza e, pertanto, consente «modalitàidonee ad assicurare la segretezza del contenuto delle conversazioni intercettate».

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